Non sappiamo se protestiamo di più rispetto ai nostri genitori, di sicuro noi giovani lo facciamo in maniera diversa. Unendo parole digitali e urla analogiche, discussioni su forum e sfilate per le strade. Tra i militanti della nuova generazione, i più efficaci sono i fan del pop coreano, capaci persino di “trollare” Donald Trump. Premessa: il K-pop è uno dei generi musicali più in crescita nel mondo. I Bts, la band più famosa, hanno 26 milioni di follower su Instagram e un singolo ascoltato da mezzo miliardo di persone su Spotify. I loro fan si muovono soprattutto su TikTok, Instagram e Twitter.
Abilissimi a capire gli algoritmi, si fanno chiamare “Army”. E, proprio come un esercito, si mobilitano in massa per promuovere la loro band del cuore: «Per esempio, ogni volta che esce un nuovo singolo si coordinano per farlo diventare un hashtag popolare» spiega Giuseppina De Nicola, docente di Storia e civiltà della Corea alla Sapienza di Roma. «Ma da qualche anno hanno iniziato a mettere queste competenze digitali anche al servizio di tematiche sociali e politiche». Lo hanno fatto lo scorso 19 giugno, registrandosi a migliaia per entrare al comizio del presidente Usa a Tulsa, in Oklahoma, senza poi presentarsi. Pochi giorni prima hanno mandato in crash l’app creata dalla polizia di Dallas che chiedeva alla gente di condividere i video dei manifestanti col dipartimento. E ancora prima sono riusciti a oscurare su Twitter gli hashtag considerati razzisti: è così che le loro campagne sono entrate in connessione con quelle del movimento Black Lives Matter.
Gli attivisti pro-afroamericani, dal canto loro, continuano a prediligere Twitter per la discussione politica, e Instagram e Youtube per la condivisione di immagini. Ma hanno iniziato a usare in massa piattaforme più ricercate. Come Citizen, che permette di condividere i movimenti delle forze dell’ordine in tempo reale grazie all’analisi dei canali radio usati dalla polizia. Oppure Signal, un’app di messaggistica usata anche dagli attivisti francesi perché considerata fra le più sicure al mondo. O ancora i buoni, “vecchi” Google Docs, i documenti di Google su cui hanno condiviso link utili, spunti culturali, indicazioni pratiche e tutorial.
Sono almeno 3 le differenze fra queste proteste e quelle della generazione dei nostri genitori. «Primo: se 50 anni fa le manifestazioni erano appannaggio di determinati gruppi, come gli operai, oggi protestano tutti gli strati sociali» osserva Donatella Della Porta, preside della Facoltà di Scienze politiche e Sociali alla Normale di Pisa. «Secondo: le proteste non nascono più sullo sfondo di quella musica rock ribelle o di quell’hip-hop politicizzato. Crescono all’interno di spazi culturali popolari e tradizionalmente rassicuranti, come la musica pop. Terzo: i movimenti si sono globalizzati grazie alle app. Create sia in Occidente, come Facebook e Instagram, sia in Oriente, come TikTok». A fare scuola sono state le primavere arabe del 2011 e, in tempi più recenti, i ragazzi di Hong Kong che si battono per l’autonomia da Pechino. Fanno brainstorming sulle future azioni di protesta su Lihkg, una piattaforma simile a Reddit, dove singole persone o blog vengono aggregate di volta in volta in base agli interessi comuni. Per sfuggire al Grande Fratello della polizia, si coordinano tramite Telegram usando 2 accorgimenti: nessuno conserva contatti o messaggi in memoria; formano tanti piccoli gruppi, come fossero dei compartimenti stagni. E designano delle singole “staffette” per muovere le informazioni tra un gruppo e l’altro.
E in Italia? Al netto di ogni considerazione politica, è un fatto che un precursore dell’attivismo online sia stato Beppe Grillo con il suo Movimento 5 Stelle. Con oltre 10 anni d’anticipo, il comico ha utilizzato strumenti come i Meetup, il blog e piattaforme di partecipazione per l’organizzazione di eventi e proposte politiche. Qualche anno dopo è stato il turno delle Sardine, capaci di far scendere in piazza decine di migliaia di persone attraverso i gruppi Facebook. Tra le azioni di hackeraggio civile più eclatanti ci sono state quelle del gruppo Anonymous, che a partire dal 2011 ha mandato più volte in crash siti ministeriali e ha pubblicato dati coperti da segreto: nel nostro Paese, gli ultimi blitz hanno rivelato le informative interne di alcune banche sui mutui e i dati sensibili dell’Ordine degli avvocati, ottenuti violando il loro sistema di posta elettronica certificata. Flashmob virali sono stati messi in piedi soprattutto dagli oppositori di Matteo Salvini. Spartiacque è stato forse il Progetto Kitten del 2015: nel giro di poche ore, in un assalto coordinato, migliaia di persone postarono sulle pagine social del leader della Lega solo immagini di gattini, “un antidoto puccioso” contro i suoi toni aggressivi. Qualche anno dopo sono diventati virali i finti selfie di persone che si accostavano al leader, per poi, a fotocamera accesa, manifestare la propria opposizione in video. La fantasia, quella, continua a non mancarci.