Avrete senz’altro sentito parlare di Squid Game. È la serie che ha battuto tutti i record su Netflix: con i suoi 111 milioni di spettatori nei primi 25 giorni di messa in onda ha polverizzato il primato finora detenuto da Bridgerton. È il tema al centro di un acceso dibattito, anche politico. Sarà pure – dato di costume non meno rilevante – il vero protagonista del prossimo Halloween, grazie alle sue tute rosse e verdi subito diventate icone. Ma perché tutti stanno vedendo Squid Game? E perché, mi chiedevo durante l’inevitabile binge watching a cui questa serie “made in South Korea” ti costringe, la sto divorando anch’io? Ho provato a rispondere a questa domanda, solo apparentemente semplice.
Squid Game unisce le generazioni
Probabilmente la sapete già. Per chi invece non la conosce, ecco in poche righe la trama di Squid Game: un gruppo di persone con pesanti problemi economici – e perciò senza nulla da perdere – viene ingaggiato per partecipare a un imprecisato torneo, in cambio di un ricco montepremi finale; ogni sfida, ispirata a vecchi giochi d’infanzia (dal tiro alla fune alle biglie), si rivela però un vero e proprio gioco al massacro. Perché chi perde viene eliminato in senso letterale e in modo sempre cruento.
Guardando Squid Game, dunque, un altro quesito sorge inevitabile: che cos’è? Un dramma sociale? Un horror? Una favola nera? Una satira su una realtà fin troppo riconoscibile? Un videogame? Una distopia sospesa tra Stephen King e il Grande Fratello? Risposta: tutto questo insieme. Ed è ciò che rende i 9 episodi della serie un prodotto unico: somiglia a tantissime cose già viste (ci sono anche riferimenti al cinema di Bong Joon-ho, il regista sudcoreano premio Oscar per Parasite), eppure propone uno storytelling del tutto nuovo. E in grado di unire le generazioni: la Y e i Millennial di ieri (io ci ho rivisto pure Giochi senza frontiere e le follie di Mai dire banzai) e la Zeta di oggi, che si riconosce in una specie di versione dell’assurdo delle “challenge” di TikTok. Anche se in questo caso c’è ben poco da ridere…
È un simbolo del disagio globale
«Quando ho avuto l’idea per Squid Game, io stesso vivevo un momento di grave difficoltà economica» ha raccontato il creatore della serie Hwang Dong-hyuk, che inizialmente progettava un film. Gli ci sono voluti 13 anni per arrivare a questo successo. E forse c’è voluto anche il profondo cambiamento socioeconomico della Corea del Sud. Molti commentatori hanno intravisto nella serie le contraddizioni che scuotono il Paese asiatico: la crisi del debito a Seoul e dintorni è alle stelle, il tasso di disoccupazione mai stato così alto, la corruzione in aumento. Il risultato? I giovani – ovvero coloro che per primi hanno riconosciuto in Squid Game lo specchio della loro condizione – sono disposti a tutto pur di sopravvivere: investimenti destinati al fallimento, inflazione colossale con i prezzi cresciuti del 50% nella capitale, esplosione del mercato delle criptovalute, perdita delle certezze e dell’autostima, guerra aperta con la generazione dei “padri” non più disposta a mantenerli.
Ma sicuri che riguardi solo la Corea del Sud? Anche se la penisola divisa in due vanta estremi comuni a pochi altri luoghi del mondo, il contesto che descrive sembra molto simile a quello che viviamo anche noi, passati dal boom del dopoguerra alle (eterne) crisi da cui non sembriamo risollevarci. Questo è l’altro elemento cardine della serie. E l’ingrediente che, da “documento” a chilometro zero, l’ha fatto assurgere a paradigma del disagio globale.
Da Stephen king al Grande Fratello, da Giochi senza frontiere a TikTok. Squid game somiglia a tante cose già viste, eppure è qualcosa di totalmente nuovo
Squid Game costruisce un universo nuovo
C’è di tutto dentro Squid Game, dicevamo. Ma, da un punto di vista prettamente estetico, c’è la costruzione di un universo totalmente nuovo. Anch’io sono stato tra quelli che hanno pensato: «Ma come, le tute sono uguali a quelle della Casa di carta!». Mi sono dovuto ricredere: l’uso di quei costumi non è casuale, ha tutt’altra valenza. «Squid Game è bello da vedere» osserva ancora Hwang Dong-hyuk. «L’ironia sta nel contrasto tra la vivacità dei colori di vestiti e scenografie e l’orrore che celano. Sembra un parco giochi per ragazzini, ma in realtà racconta tutt’altro». Vi ricorda qualcosa? A me sì: post, stories, “Insta”nti di vita ormai più reali che virtuali dove tutto è sempre coloratissimo, filtratissimo, rassicurantissimo. Ma sotto pulsano le stesse tensioni, sempre di più. «Non volevo che il mondo della mia serie apparisse subito come una minaccia» dice sempre lo showrunner. Anche il nostro non lo è. Anche il nostro è ricoperto dalla glassa, ma sappiamo che, sotto, la torta è spesso vecchia, stantia, marcia. Forse per questo siamo stati travolti da questo fenomeno senza precedenti. Forse per questo stiamo tutti guardando Squid Game.