“We should all be feminist”. Recitava così la t-shirt divenuta virale in pochissimo tempo, presentata da Maria Grazia Chiuri in occasione della sua prima collezione come direttrice creativa Dior. Un messaggio che si inserisce in un periodo molto caldo, pochi mesi dopo le elezioni di Trump e della successiva Women’s March di Washington che ha visto unite, in una pacifica manifestazione, migliaia di donne da ogni parte del mondo: gente comune, ma anche celebrities che hanno accolto il desiderio di farsi un’unica voce per i diritti di tutte le donne, da ogni parte del mondo, diritti di uguaglianza spesso dimenticati. Un unico grido per combattere: odio, paura e razzismo, altro lato della medaglia di un mondo senza confini che se da un lato vuole accogliere, dall’altro si trova combattuto con le conseguenze di un mix di culture e religioni, spesso difficili da far convivere e che generano insicurezze. Maria Grazia Chiuri è la prima donna direttore creativo di Dior, un traguardo non da poco e per la t-shirt presentata durante la Paris Fashion Week Primavera Estate 2107 si è ispirata al discorso ai Ted Talk della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, divenuto poi un saggio di successo. Un grande traguardo per tutte le donne che anche nell’industria della moda sono sempre più inserite in ruoli chiave. Non solo stiliste o fashion manager, ma anche le modelle stanno dimostrando sempre più di non essere dei manichini, anzi. La prima ad indossare una t-shirt con slogan “The future is female” è stata Cara Delevingne nel 2015 e assieme a lei la sua compagna, la cantante Annie Clark in arte St Vincent.
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Storia della T-shirt con slogan femminista
Ma qual è la storia di questa maglietta? Lo ha raccontato il New York Times: la prima maglietta in questione risale agli anni ’70 ed era stata realizzata per la Labyris Books, la prima libreria femminista a New York. Le proprietarie, Jane Lurie e Marizel Rios, scelsero proprio la frase “il futuro è donna” e chiesero a Liza Cowan che all’epoca realizzava bottoni con frasi femministe, di farne anche con la loro frase. Il successo di questa scritta arrivò in realtà con le t-shirt che decisero di realizzare assieme ai bottoni, in particolare la Cowan scattò foto a delle amiche, tra queste c’era anche la sua compagna Alix Dobkin, per creare un piccolo reportage sui cambiamenti femminili nel passaggio alla sua vita lesbo. La foto degli anni ’70 è precisamente questa e assieme alle altre oggi si trova nei Lesbian Herstory Archives di New York, il più grande archivio di archivio storico della comunità lesbica. Proprio grazie all’account Instagram Her Story, la t-shirt è stata notata da Rachel Berks, proprietaria di Otherwild, un negozio e studio di design a Los Angeles molto vicino anche al mondo femminista. Dopo aver visto le t-shirt Berks ha fatto stampare 24 magliette vendute in soli due giorni.
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Da Dior a Topshop: dove trovare le t-shirt femministe
Ad aprire la pista del femminismo in passerella è stata dunque Maria Grazia Chiuri per Dior con la sua t-shirt: “We should all be femminist”. Recentemente vista anche alle sfilate di New York proposta da Prabal Gurung. Attivismo in passerella anche per Versace che ha fatto sfilare una collezione ricca di messaggi sociali con parole forti come: uguaglianza, coraggio, unità. E sempre da Versace, Amber Valletta ha indossato per il finale di sfilata una bandana bianca per sostenere la raccolta fondi per l’Aclu (American civil liberties union) organizzazione che si occupa di difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti e l’Unhcr (Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati).
Il femminismo è pop: marketing o attivismo?
Il discorso è come sempre, capire quanto di tutto questo “attivismo” sia reale e quanto invevce solo marketing che sfrutta un momento storico in cui questo tema è di grande interesse e coinvolgimento per tutti. Il discorso è: è necessario spendere 500 euro per lanciare un messaggio a favore delle donne? Le Influencer o Fashion blogger che la indossano la t-shirt sapendo di ottenere tanti like su Instagram sono delle privilegiate perché possono acquistarla, o possiamo farne una con un pennarello ed ottenere risultato di uguale spessore? Come sempre, a volte, i messaggi anche più positivi soffrono di speculazioni e chi la indossa, forse, non ha mai ascoltato il discorso al Ted di Chimamanda Ngozi Adichie? Proprio per la t-shirt indossata da Cara Delevingne scoppiò una polemica quando decise di produrre anche lei la suddetta felpa con su scritto “The future is female” e metterla in vendita qui per devolvere poi i ricavati al programma Girl’s Up dell’ONU; la fondatrice di Otherwild non ha apprezzato la violazione di copyright che ha spiegato in questo post. Non solo, nel 2014 un gruppo di donne operaie della Mauritius denunciarono lo sfruttamento relativo alla produzione delle t-shirt per la campagna a favore del femminismo promossa da Fawcett Society. Per produrre le t-shirt con lo slogan “This is what a feminist looks like” sfoggiate con orgoglio da personaggi dello spettacolo e della politica inglese, le operaie in questione venivano pagate 80 centesimi l’ora e vivevano in sedici nella stessa stanza, la t-shirt invece era in vendita a 45 sterline, le dichiarazioni vennero riportate dal Mail on Sunday. Insomma, ancora una volta, la moda ci insegna quanto sia facile sentirsi paladine sfoggiando semplicemente uno slogan – soprattutto se di tendenza e griffato – e quanto invece sia difficile riuscire a fare qualcosa di concreto a favore del femminismo.