I 3 figli di Elena Piffero hanno 9, 7 e 5 anni e farebbero rispettivamente la quarta elementare, la prima e la scuola materna. Farebbero, se la frequentassero. Lei e suo marito hanno scelto di educarli a casa, con il metodo dell’unschooling. A differenza dell’homeschooling, percorso di educazione alternativo gestito dalla famiglia e ispirato ai programmi ministeriali, l’unschooling è un “apprendimento libero e autoguidato”, più rilassato e meno schematico: sono i bambini a scegliere cosa e quando imparare, seguendo passioni e inclinazioni. E i genitori? Facilitano l’accesso alle fonti, forniscono stimoli, rispondono a dubbi. «A Birmingham, dove vivevamo, ho conosciuto una mamma la cui figlia era “home educated”, cioè educata in casa» spiega Elena, che dopo un dottorato in Cooperazione internazionale ha lavorato in diversi Paesi. «La reazione di pancia è stata: “Strani, gli inglesi”. Però mi è rimasta la curiosità e ho approfondito». La famiglia di Elena si è poi trasferita a Bologna; i suoi bambini non hanno mai messo piede in una scuola, lei ha continuato a documentarsi. Al punto da arrivare a scrivere il primo libro italiano sull’argomento, Io imparo da solo! (Terra Nuova, vedi box), in cui mescola il racconto di un’esperienza personale – la sua – a studi e ricerche sul tema.
Non ci sono maestri
I genitori non sono maestri ma favoriscono l’accesso alla conoscenza. Moltissimi adulti pensano che andare a scuola sia obbligatorio. In realtà, ricorda il pedagogista e counselor Nuccio Salis, «l’articolo 30 della Costituzione italiana dice: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”. In modo provocatorio, se noi mandiamo i figli a scuola stiamo sottoscrivendo che come madri e padri, da soli, non siamo in grado di provvedere in toto alla loro istruzione». Il fenomeno di chi decide un percorso di istruzione domestico è in crescita: negli Usa i ragazzi coinvolti sono 2 milioni, in Inghilterra 70.000, in Italia (ancora) poche migliaia. La maggior parte sceglie l’homeschooling, ma l’unschooling è diverso: i bambini imparano a leggere, scrivere e contare da soli, con i loro tempi. «I genitori» spiega Elena Piffero «sono strumenti per favorire l’accesso alla conoscenza. La mia primogenita ha imparato l’alfabeto tra i 5 e i 6 anni. Le avevo fabbricato delle lettere di carta ma le snobbava. Ho pensato: non è pronta, ma qualche settimana dopo mi ha portato un disegno su cui aveva scritto il suo nome e quello della sorellina».
I punteggi degli unschooler
Due studi americani confermano che gli allievi autodidatti hanno punteggi superiori. Imitazione, spirito di iniziativa, confronto con genitori, fratelli e amici; si può imparare in molti modi. Poi certo, si usano anche i libri (e il web, le visite ai musei, i laboratori creativi…). Ogni unschooler trova il suo equilibrio: sembra incredibile ma funziona. Racconta Nuccio Salis: «Da un lato le famiglie riferiscono esperienze positive. Dall’altro 2 studi americani del National Home Education Research Institute e del Journal of Educational Research confermano: l’adattamento sociale e la stabilità psico-emotiva degli unschoolers, ma anche i punteggi in termini didattici sono superiori a quelli dei coetanei scolarizzati». La cosa che Elena trova più difficile è «sostenere il giudizio negativo degli altri. “Non li mandi a scuola? Ma sei matta?”. I commenti si sprecano. Scriverci sopra un libro è un modo per difendermi. La scuola è una cosa che dai per scontata, se smetti di farlo ti trovi a ripensare le scelte quotidiane, il tempo, la carriera. È un salto in un paradigma nuovo che coinvolge a 360 gradi la vita familiare».
L’impegno della famiglia
Innanzitutto, è richiesta presenza: Elena e suo marito lavorano entrambi part time per occuparsi dei figli. Per socializzare ci sono le biblioteche, gli scout, i viaggi, le gite al parco. «Ci sono periodi in cui sembra tutto fermo, altri in cui invece è evidente, letteralmente, la fame di imparare. Certo ogni tanto devi sederti, prendere un respiro e pensare: “ok, mi fido”». Tutto l’opposto dei percorsi standard proposti dalla scuola, che tendono all’omologazione. «Il nostro tentativo è quello di reinterpretare e innovare il sistema» spiega Sergio Leali, presidente di Laif, Associazione italiana per l’istruzione famigliare. «Mia moglie fa l’insegnante da 25 anni, in un istituto tecnico, con passione. I nostri figli sono andati a scuola ma da 9 anni fanno educazione parentale. Per dire: conosciamo bene il tema e non siamo “contro”. Proponiamo un’alternativa. Con l’unschooling sono l’entusiasmo e la passione dei ragazzi a tracciare le linee di forza; il genitore si inserisce su queste linee, privilegiando le sfaccettature più essenziali e poetiche della realtà rispetto alle nozioni apprese ».
Il passaggio alle superiori
Dal 2017 una legge impone a unschoolers e homeschoolers un esame a fine anno, per verificare preparazione e competenze. «È una forma di tutela più per lo Stato che per noi» dice Elena Piffero. «Per nostra figlia maggiore avevamo preparato una relazione di 15 pagine sulle esperienze e le cose imparate durante l’anno, ma le maestre le hanno fatto domande da libri di testo che lei non aveva mai visto e la prova è durata 7 ore. Comunque, è stata promossa». Il passaggio nelle classi avviene in modo naturale alle superiori. L’unschooling non si addice a tutti, sostiene Elena Piffero. «Implica apertura al cambiamento, assunzione di responsabilità. Penso però che anche chi sceglie la scolarità tradizionale possa “prendere spunto” dall’educazione parentale, il cui insegnamento, in fondo, è: ogni bambino ha la propria traiettoria di sviluppo. A scuola alcuni bambini sono etichettati come lenti, o iperattivi, quando in realtà è il confronto con i coetanei a renderli tali». Agli unschoolers questo non succede. Ma se poi sono loro, i bambini, a chiedere di andare sui banchi? «Li assecondiamo. In genere il passaggio avviene comunque, in modo naturale, all’inizio delle superiori, via via che lo studio si specializza e diventa necessario, effettivamente, ricorrere ai libri di testo» spiega Piffero. Anche se negli Stati Uniti università prestigiose come Yale hanno cominciato a riservare una quota di posti ad unschoolers e homeschoolers: con qualche lacuna rispetto ai programmi scolastici ma maggiori abilità nelle aree della creatività e del problem solving, in poco tempo colmano il divario rispetto ai coetanei scolarizzati. E si laureano con punteggi eccellenti.