Ricordi l’abito di velluto verde ricavato dalle tende del salotto con cui Rossella O’Hara parte per Atlanta sicura di conquistare Rhett Butler? Oggi quell’idea geniale con cui la protagonista di Via col vento risolve il problema di avere un vestito nuovo senza poterlo comprare si chiama upcycling. E sta conquistando il mondo della moda.
Le griffe sperimentano
Il primo brand è stato Diesel, che nel febbraio scorso ha presentato Diesel upcycling for 55DSL, un’edizione limitata che propone camicie sportive e capi denim invenduti, pezzi d’archivio e prototipi ripensati e riassemblati con l’aiuto di alcuni designer. Poi è arrivato John Galliano, direttore creativo di Maison Margiela e stilista amato da Charlize Theron, che ha lanciato Recicla: il progetto riutilizza parti di capi vintage selezionati nei negozi di seconda mano per creare esclusivi pezzi unici. La medesima filosofia anima Patrick McDowell che ha firmato per Pinko la collezione Reimagine, nata dalla rielaborazione di vestiti rimasti in magazzino dalle precedenti stagioni.
Alessandro Dell’Acqua, invece, per festeggiare i 10 anni di N°21 ha puntato su una capsule che ripropone la pencil skirt, icona del marchio, realizzata con tessuti in stock.E persino l’amatissima piattaforma di shopping online Zalando ha lanciato “Small steps, big impacts”, 116 capi realizzati in collaborazione con 8 marchi europei attenti alla sostenibilità, tra i quali l’italiano Progetto Quid, marchio di moda etica che per i suoi capi utilizza esclusivamente scarti di tessuto.
Le donne approvano l’upcycling
L’upcycling, cioè la creazione di qualcosa di nuovo usando qualcosa che abbiamo già ma che non ci serve più, è probabilmente il modo più sostenibile di riciclare perché abbassa il consumo di materie prime e di energia, riduce l’inquinamento e le emissioni di gas serra. Ma non è tutto. «Ai produttori conviene economicamente perché consente di eliminare sprechi e giacenze» spiega il sociologo Francesco Morace, fondatore di Future Concept Lab, che insieme a Glaxi sta conducendo una ricerca su come sono cambiati i comportamenti degli italiani durante la pandemia. «Il riuso creativo è una forma di economia circolare che sta suscitando molto interesse perché, dopo il Covid, l’ottimizzazione delle risorse è diventata una necessità improrogabile per molti. E il settore della moda, superfluo e sprecone, era già da tempo sul banco degli imputati».
Secondo una stima dell’Unece, la commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, nel 2018 l’85% dei vestiti prodotti è finito in discarica e solo l’1% è stato riciclato. I dati dello studio curato da Morace per Glaxi dicono che sono le donne le più interessate alla sostenibilità (48,2% contro il 39,3% degli uomini), soprattutto le giovanissime sotto i 25 anni e quelle sopra i 50. «È un’alleanza che unisce nonne e nipoti, la generazione Z scesa in piazza per i Fridays for future e le baby boomer delle battaglie ecologiste negli anni ’70» sottolinea il sociologo. «I brand non possono più sottovalutarle. Il riciclo in tutte le sue forme, quindi, non è un trend passeggero, ma un cambiamento che potrebbe segnare i prossimi 2 decenni».
Il Pianeta ringrazia
Le istanze etiche spiegano solo in parte il successo dell’upcycling. Dopo tutto rivoltare i cappotti e passare i vestiti di madre in figlia è un’usanza di cui fino a poco tempo fa ci si vergognava, segno di povertà. «Sono stati gli hippy negli anni ’70 a lanciare la moda dell’usato con i mercatini di jeans e parka militari venuti dagli Usa. Allora rifiutarsi di comprare abiti nuovi era una protesta contro il sistema» spiega Sofia Gnoli, storica del fashion. «Con il nuovo millennio è arrivato il trend del vintage d’autore: Julia Roberts, agli Oscar 2001, indossò un modello disegnato da Valentino nel 1992, uno dei migliori outfit mai visti sul red carpet». Certo, il suo era vintage d’autore, eppure da quel momento abbiamo cominciato a rovistare negli armadi di mamme e nonne in cerca di abiti da riutilizzare, ad apprezzarne i tessuti e il taglio accurato.
Sono stati gli hippy negli anni ’70 a lanciare la moda dell’usato. allora era una protesta contro il sistema, oggi È il segno dell’attenzione alla salute del Pianeta
Altro che fast fashion! «Nel momento di massima globalizzazione si è riscoperto il fascino del pezzo unico» sottolinea Gnoli. E l’idea di avere un modello prodotto in pochissimi esemplari è un motivo di successo anche per l’upcycling che trasforma le giacenze di magazzino in limited edition. Un lusso che ci possiamo concedere senza nuocere al Pianeta.