Si chiamano sleeping brand, marchi dormienti, nomi dalla storia gloriosa ma che per tanti motivi – soprattutto finanziari – a un certo punto smettono di esistere. Come è successo a quello di Walter Albini, lo stilista che, negli anni ’70, creò il prêt-à-porter, le sfilate unisex, il fashion made in Italy, Milano capitale della moda. Il nome di Walter Albini, finalmente, sta per risvegliarsi dal sonno: la piattaforma di investimento svizzera Bidayat, società di Alsara Investment Group fondata da Rachid Mohamed Rachid (amministratore delegato del fondo di investimento del Qatar Mayhoola, proprietario di Balmain, Valentino Fashion Group e Pal Zileri), ha appena acquisito la proprietà intellettuale e gran parte degli archivi dello stilista italiano e ha intenzione di rilanciarne alla grande il marchio. La notizia, già sensazionale di per sé, sta tenendo il mondo fashion col fiato sospeso da quando hanno iniziato a circolare rumors su un possibile (ma mai confermato) coinvolgimento di Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci. Supposizioni o no, meglio portarsi avanti e ripercorrere la vita di un genio degli anni ’60 e ’70 a cui la moda deve moltissimo.
Walter Albini, una carriera iniziata iniziata molto presto
Nato Gualtiero Angelo Albini a Busto Arsizio (Varese) il 3 marzo 1941, Walter Albini frequenta l’Istituto d’Arte, Disegno e Moda di Torino. A soli 17 anni collabora con riviste e giornali, illustrando le sfilate d’alta moda da Roma e Parigi. Qui incontra due donne che gli cambiano la vita: Coco Chanel, che influenzerà per sempre il suo stile, e Mariuccia Mandelli, alias Krizia, che lo convince a tornare a Milano per disegnare la sua linea di maglieria. Verso la fine degli anni ’60 Albini lavora già per le principali case di moda italiane di allora (Billy Ballo, Cadette, Cole of California, Trell). Conosce ogni passaggio dell’industria della moda e incarna la figura del moderno direttore creativo che si dedica a più brand contemporaneamente.
Walter Albini e le sue prime volte
Concepisce le prime co-lab, lavorando con Etro alla creazione di tessuti stampati e con Ferré per la bigiotteria. Nel 1971, quando il suo marchio è ormai lanciato, Albini abbandona Palazzo Pitti di Firenze – storica sede di presentazione delle collezioni – in favore del Circolo del Giardino a Milano, segnando la nascita del prêt-à-porter e gettando le basi della Milano Fashion Week. Con una sfilata di due ore racconta la sua visione rivoluzionaria: se fino a quel momento moda faceva rima con Haute Couture, Albini per la prima volta la fonde con l’industria, coordinando per la sua collezione cinque marchi, ognuno specializzato in una diversa tipologia di prodotto.
Gender fluid, storytelling, fashion show: tutta roba di Albini
Nei primi anni ’70 inventa la formula unimax, fatta di capi senza distinzione di taglio e colore per uomo e donna. Se Saint Laurent ha inventato Le Smoking, Walter Albini va oltre: uomo e donna possono infilarsi l’uno nei panni dell’altra, anticipando di 50 anni il gender fluid. Precursore di quello che oggi chiamiamo storytelling o brand image, è un genio quando si tratta di costruire racconti intorno alla sua moda. Sfila indossando le sue creazioni, arreda le sue case coordinandole alle collezioni e le usa come set fotografici, sceglie amiche e conoscenti come testimonial, lancia la sfilata-spettacolo che esula dal concetto di défilé.
Albini rompe gli schemi
Durante gli Anni di piombo, per esempio, posa all’uscita di una fabbrica con indosso il passamontagna dei movimenti estremisti: è scandalo. Per la sfilata autunno-inverno 1973/74 allestisce allo storico Caffè Florian di Venezia uno show memorabile ispirato a Mademoiselle Coco, manda un aereo a tutti i clienti e assolda un’orchestrina di Piazza San Marco. Nel 1976 organizza una mostra alla Galleria Marconi di Milano con i suoi ritratti firmati da grandi fotografi (Nini Mulas, Alfa Castaldi, Aldo Ballo, Maria Vittoria Backhaus) nei quali lui stesso interpreta la sua collezione. Adotta la formula – poi ampiamente imitata – di una prima linea d’élite (chiamata WA, le sue iniziali) sostenuta economicamente da una seconda linea per un pubblico più ampio (Misterfox). Sfila con tempi diversi da quelli canonici e in città differenti, rompendo nuovamente gli schemi e anticipando un trend che continua tutt’ora. È il primo a introdurre la musica alle sfilate. È, infine, il primo “stilista”, termine coniato per lui dalla fidata giornalista e amica Anna Piaggi per riassumere in un’unica parola tutto quello che l’eclettico Walter rappresenta.
Walter Albini, una fine silenziosa
La stampa internazionale (quella italiana, troppo provinciale, lo snobba) lo definisce “forte come Saint Laurent”. Geniale ed eccentrico, sfacciato e scandaloso, innamorato dell’arte e dell’astrologia, Walter Albini è un dandy superstar capace come nessuno prima di lui di una visione poliedrica che fa della moda un macrocosmo. Si nutre di stimoli provenienti da ogni dove (in questo Alessandro Michele gli somiglia, sì). Il suo problema, rispetto a Yves, è che non c’è nessun Pierre Bergé al suo fianco che gli permetta di occuparsi solo della sua arte senza pensare al business. Così, privo di una strategia economica, Albini si ritrova senza denaro. Muore il 31 maggio 1983, a soli 42 anni, portando via con sé il marchio e la sua storia.
Il futuro del brand
Oggi, grazie a Bidayat e alla cooperazione di Barbara Curti (che ha acconsentito alla vendita dell’immenso archivio personale messo insieme dalla madre, la collezionista Marisa), la visione di Walter Albini promette di risorgere dalle ceneri. «Per me ogni vestito ha una storia: d’amore, di rabbia, di violenza. Ogni vestito è un momento, una persona, un posto e ogni vestito ha il suo ruolo, come in teatro. Per cambiare vestito bisogna cambiare attitudine e spirito e entrare in una nuova “parte”. Ogni volta, ogni stagione, ogni collezione». Sì, Walter Albini ha un solo posto dove sarebbe dovuto sempre stare: tra i creativi più visionari, innovativi e liberi del mondo.