Ogni volta mi sento un po’ a disagio. Ogni volta che qualcuno mi dice: «Non dimostri affatto la tua età». Il perché l’ho capito dopo avere letto Il bello dell’età. Manifesto contro l’ageismo di Ashton Applewhite, uscito qualche anno fa in Italia per Corbaccio. Come l’autrice, 70 anni, giornalista americana, anche io ho ereditato dai miei genitori dei buoni geni, ho una vita attiva, faccio un lavoro che mi tiene sempre al passo, curo il fisico e la mente con camminate, nuoto e yoga, so che avrò, se tutto va bene, ancora una lunga vita davanti. Eppure non mi sento pronta. Pronta a invecchiare. Perché invecchiare significa entrare in una “categoria”, finire dall’altra parte della barricata. E quel «Non dimostri affatto la tua età» implicitamente significa che dall’altra parte ci dovrei stare.
Cos’è l’ageismo
«L’ageismo è la forma più stupida di razzismo, perché discrimina chi vive una condizione che tutte e tutti vivranno comunque, se non muoiono prima» mi spiega Lidia Ravera, scrittrice da sempre attenta a questi temi, quando le espongo i miei dubbi sul fatto se sia giusto nascondere l’età o mostrarsi come si è, capelli grigi compresi come fa Andie MacDowell. «Nascondere la propria età è una dichiarazione di debolezza. Vuol dire che hai introiettato supinamente gli aggettivi “squalificativi” che tutti associano alla vecchiaia, e la rifiuti. E, rifiutandola, rifiuti una parte della tua vita».
Quali sono questi aggettivi? Anziana, befana, cougar, troppo vecchia per… Quando va bene, donna di una certa età. Per non parlare dei pregiudizi: «Le rughe sono brutte, i vecchi sono incompetenti, è triste essere vecchi» scrive Applewhite. La forma di discriminazione basata sull’anagrafe ha un nome: si chiama ageismo. Ed è da un po’ che, per fortuna, se ne parla. Simone de Beauvoir nel 1971 scrisse un libro intitolato appunto La terza età, dove spiegava che il divenire vecchi è vissuto in maniera variabile a seconda del contesto sociale e culturale di appartenenza. In Occidente vige il mito della giovinezza: dobbiamo essere sempre belli e prestanti per continuare a girare sulla ruota. Eppure la popolazione sta invecchiando. Gli over 65 in Italia sono il 23,8 % della popolazione, pari a più di 13 milioni di persone. Che hanno davanti almeno altri 20 anni di vita. «Bisogna combattere gli stereotipi che rendono il terzo tempo della vita impraticabile, inabitabile, sinistro, odioso» continua Lidia Ravera. «James Hillman in La forza del carattere (Adelphi, ndr) scrive: “La patologia più grave della vecchiaia è l’idea che ne abbiamo”».
La vergogna di invecchiare
Lidia Ravera ha 71 anni, si tinge i capelli di biondo (ma se li tingeva già a 20 anni), corre 6 chilometri tre o quattro volte alla settimana («anche se ho smesso di fare le gare come prima») e sta finendo un libro che uscirà a febbraio. È una specie di requisitoria, un proclama, un allegro comizio dal titolo significativo: Vergognatevi di vergognarvi di invecchiare. «Da 10 anni, instancabilmente, lavoro sull’immaginario collettivo per ripulire questa parte della vita da tutto il ciarpame e da tutti gli aggettivi offensivi che ci riuniscono in una categoria che non esiste: ciascuno invecchia a modo suo, sei quello che sei. L’ho fatto con i miei ultimi 6 romanzi, lo faccio dirigendo una collana di libri d’amore, “Terzo tempo” (per Harper Collins, ndr), dove i protagonisti sono tutti over 60, lo faccio parlandone pubblicamente. Se da vecchio o vecchia sei arido, egocentrico, ripiegato su te stesso, pieno di rancore o invidia, depresso o inerme, quasi sicuramente eri così anche a 30 anni. La vecchiaia non è un buco nero in cui cadi, un luogo altro. È parte della tua vita, e ciascuna vita è unica».
La prima cosa da eliminare sono le categorie
«Questa contrapposizione vecchio/giovane consegna due terzi di noi a uno stato di seconda classe, un esilio autoimposto docilmente nei posti peggiori della platea» scrive Ashton Applewhite. E così ci fa dimenticare che l’età è un continuum, che manteniamo traccia di quello che siamo stati e delle esperienze che abbiamo fatto. Siamo quello che siamo. Non altro. «Solo gli smemorati pensano che la giovinezza sia felice. Io sono più felice adesso. O, forse, dovrei dire meno infelice. Ho capito chi sono, so trattare con me stessa senza perdere la pazienza, mi tengo d’occhio, sono padrona a casa mia» conferma Lidia Ravera. Si chiama “Curva a U della felicità” e l’hanno individuata i ricercatori delle università di Melbourne e di Warwick: le persone sono più felici all’inizio e alla fine delle loro vite, perché hanno meno pressioni legate alla famiglia, al lavoro e alla carriera. «Si è più felici perché si è più consapevoli, meno dipendenti dal giudizio degli altri, si hanno meno bisogni e perciò più desideri. La lunghezza del tuo passato ti rende forte, la brevità del futuro ti aiuta a non perdere tempo dietro a ciò che non è essenziale né nutriente» continua Ravera. Lottare contro il tempo che passa è una battaglia persa, anche se non è facile smettere di combatterla. «Qual è stato il pregiudizio di cui è stato più difficile liberarmi?» dice Ashton Applewhite. «Quello contro me stessa, contro la futura me, più vecchia, che vedevo inferiore alla giovane me. Ecco il fulcro della negazione dell’età. Crea una divisione artificiale, distruttiva e insostenibile fra chi siamo e chi diventeremo. Occultare o rinnegare la nostra età dà a quel numero un potere su di noi che non merita. Accettare l’età apre la strada al riconoscimento di un obiettivo raggiunto, che va rivendicato con orgoglio».
W il coming out!
Lidia Ravera invita al coming out, «perché l’età, l’esperienza fatta, la nostra storia sono un valore aggiunto. Basta rincorrere un tempo scaduto, impariamo ad abitare quei 30 anni in più che pace, igiene e nuove tecnologie ci hanno regalato e che rischiano di rimanere vuoti. Non bisogna inseguire il “modello giovinezza”, bisogna inventarne un altro. Siamo la prima generazione che si trova a vivere tempi supplementari così lunghi. Siamo esploratori, in una terra sconosciuta. Una generazione sperimentale».
Le donne role model che non nascondono le rughe
Tante super model degli anni ’80 sono oggi di esempio: non nascondono le rughe, affrontano la loro età con dignità, hanno messo la cura spirituale davanti alla cura del corpo, e quella del corpo sul piano della gentilezza invece che su quello della “forzatura”. Sfilano sulle passerelle per dimostrare che la bellezza può avere un altro tempo. Che non esiste qualcosa di “appropriato all’età”: né attività, né outfit, né relazioni. La longevità è una prova del progresso umano, ma la nostra cultura ancora non è pronta. Per le donne è anche peggio. «Perché quando smettono di essere “fertili” vengono trattate da merce scaduta, come se fossimo ancora mammiferi al servizio della riproduzione» spiega Ravera. Non è così: lo dimostra un bel documentario, Ancora donne, di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond (lo trovate su oval.media.it) che racconta della voglia di amare e sognare di 5 donne over 60. «Da oggetti del desiderio altrui impariamo a vivere da soggetti, titolari del diritto di desiderare. Sarebbe una vera rivoluzione» conclude Lidia Ravera. L’ageismo è l’ultimo pregiudizio socialmente sdoganato. «Accettare la diversità significa includere persone di razza, genere, capacità e orientamento sessuale diversi: perché l’età non viene considerata con un criterio simile?» scrive Applewhite. Per questo ogni volta che qualcuno mi chiederà quanti anni ho e dirà: «Non dimostri affatto la tua età» – ne ho appena fatti 60 – risponderò: «E ora che lo sai cambia qualcosa?».