Sono passati tre anni da quel 15 agosto del 2021 quando i talebani si sono ripresi l’Afghanistan. I riflettori si sono spenti ma l’emergenza resta: umanitaria, economica, sociale.

L’anniversario della presa del potere dei talebani in Afghanistan

Il mondo sembra non accorgersene, eppure l’Afghanistan sta vivendo il suo momento più buio e tutti noi ce ne siamo dimenticati. Ci siamo dimenticati quelle immagini drammatiche della fuga dall’aeroporto di Kabul, delle persone aggrappate agli aerei, delle tante uccise in patria perché figli, fratelli, sorelle erano riusciti a scappare, aiutati dalle tante associazioni che negli ultimi 20 anni avevano fatto la differenza lì, accanto agli afghani. Ci siamo dimenticati delle donne di Kabul, costrette a rinunciare alla scuola, al lavoro, ritirate in casa, senza un futuro che non sia quello di moglie e madri.

La fuga dall’Afghanistan: ogni donna ha un sogno per la vita

Per farci raccontare come vivono oggi le donne in questo Paese, raggiungiamo M., una giovane di 22 anni che ora abita in Italia, con un’identità ancora protetta dopo tre anni perché dall’Afghanistan è riuscita a fuggire in quel drammatico 15 agosto 2021. Ce l’ha fatta con l’aiuto di Fondazione Pangea, attiva sul territorio da più di 20 anni con progetti di empowerment per le donne, educazione, lavoro, scolarità, assistenza umanitaria.

afghanistan apartheid delle donne

Le persone come lei devono sempre guardarsi alle spalle, anche oggi: solo in questo 2024, ne sono arrivate in Italia oltre 120. Eppure, da qui, sembra così surreale tutto quello che hanno lasciato dietro di sé. «Sono felice di essere in Italia» racconta M. in un italiano ottimo. «Sono al sicuro con la mia famiglia, perché posso studiare e lavorare e sono libera. Ma quando i talebani sono entrati a Kabul, ho pensato che tutti i miei sogni fossero perduti: ogni donna ha un sogno per la vita».

Afghanistan: uno dei posti peggiori per le donne

Eppure in Afghanistan alle donne non è concesso neppure di sognare. «Le donne afghane non possono studiare, lavorare o semplicemente uscire di casa senza la supervisione di un uomo e devono sempre indossare il burqa». Chissà cosa può voler dire crescere donna senza i diritti più elementari, senza la possibilità di cambiare un giorno il proprio destino. «Sono cresciuta in guerra. A casa mia c’è sempre stata la paura della guerra, e poi tante disuguaglianze e disparità. Sogno un Paese in cui le donne potranno studiare e poter decidere della propria vita. L’Afghanistan è uno dei posti peggiori per le donne».

Afghanistan apartheid delle donne

L’Apartheid delle donne

I divieti imposti dai talebani alle donne sono sempre più stringenti, come conferma Luca Lo Presti, presidente di Fondazione Pangea. «A distanza di tre anni dal ritorno dei Talebani possiamo dire con certezza che nel Paese è in atto un vero e proprio Apartheid di genere. Per le donne la situazione precipita di giorno in giorno, per loro non è possibile andare a scuola, fare sport, semplicemente curarsi in autonomia o andare in giro da sole, persino recarsi in ospedale per curarsi è impossibile se non si è accompagnate da un uomo, sia esso il marito, il fratello o addirittura il figlio maschio piccolo. Le donne non esistono, non sono persone perché non possono godere dei diritti umani».

La crisi umanitaria in Afghanistan

In Afghanistan la situazione è davvero drammatica non solo per l’autoritarismo del regime, ma anche per la fame, la povertà estrema, i terremoti, le catastrofi naturali. Lo scorso inverno sono stati a rischio di malnutrizione oltre 3 milioni di bambini e il prossimo non sarà meglio.

Il silenzio della comunità internazionale

Il contesto politico internazionale non aiuta: l’esclusione delle donne alla conferenza di Doha e i tentativi di dialogo con i Talebani, insieme al silenzio della comunità internazionale, non lasciano presagire niente di buono e aprono le porte al riconoscimento del governo talebano. Così l’Afghanistan rischia di essere dimenticato insieme a migliaia di bambine e bambini. «Quello che vediamo quando siamo lì è la sofferenza, l’assenza di una visione e una ricerca comune di benessere per la popolazione afghana. La mancanza di libertà e autonomia è totale non solo per le donne ma per tutti» prosegue Lo Presti.

Il lavoro di Fondazione Pangea oggi in Afghanistan

La Fondazione ha deciso comunque di restare e riorganizzare progetti e attività. «Seppur scontrandoci con una situazione ai limiti abbiamo riaperto una sede a Kabul dove abbiamo impiegato del personale afghano, garantendo anche la nostra presenza» racconta Luca Lo Presti. «Abbiamo accolto e aiutato donne, uomini e bambini in fuga verso la libertà; abbiamo aiutato le persone che sono rimaste in Afghanistan fornendo loro protezione e aiuti umanitari con la distribuzione in una prima fase di viveri e coperte in 7 province dell’Afghanistan raggiungendo 7.000 nuclei familiari, oltre 60.000 bambini. Successivamente siamo intervenuti con la distribuzione di pacchi alimentari per 258 famiglie a Kabul e, a seguito del terremoto ad Herat, con la distribuzione di pacchi alimentari, di tende e beni di prima necessità per 35 famiglie ultra vulnerabili (donne capofamiglia), raggiungendo circa 2000 persone».

Il sogno della scuola per bambine e bambini sordi

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In questo contesto, sognare è difficile, ma non impossibile. «Sembrava impossibile eppure abbiamo continuato a sostenere la scuola per bambini e bambine sorde di Kabul e con caparbietà siamo riusciti a riaprila. Oggi la scuola è frequentata da decine di bambini e bambine sorde e in quei corridoi rimasti vuoti per tanto tempo gli studenti e le studentesse sono tornate a correre. Peraltro il pasto che forniamo alla mensa scolastica rappresenta per molti di loro l’unico della giornata. Infine stiamo avviando sempre in loco progetti per la salute mentale, perché la depressione e il tasso di suicidi sono in aumento. Abbiamo inoltre supportato la formazione professionale di 300 minori e il coordinamento di corsi online per l’educazione all’uso del computer di 350 studenti e studentesse. È stato infine avviato un esperimento pilota di attività generative di reddito con 15 famiglie nella zona di Kabul».