Ogni medaglia ha la sua storia, per lo più fatta di sudore e lacrime, ma certe lacrime e certe storie finiscono per segnare un’Olimpiade ben oltre il sudore e il valore sportivo che sottendono. Se questo è vero, tra i momenti di Parigi 2024 che resteranno nella memoria di tutti, due portano la data del 1° agosto e sono sequenze della stessa scena: quella in cui Alice Bellandi realizza di aver vinto l’oro nella finale di judo, categoria 78 kg.
Alice Bellandi nella storia
Nella prima immagine c’è lei che dal tatami corre a baciare la fidanzata, Jasmine Martin, sugli spalti, e lo fa con un gesto così intenso da conquistare le prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Nella seconda c’è il suo pianto incontenibile mentre, sul gradino più alto del podio, riceve la medaglia. Un pianto che nessuna gioia per quanto grande, da sola, può spiegare. Di lì a poco, infatti, tornata a Casa Italia, dirà che dentro quella vittoria c’è tutta la sua storia e che la medaglia appesa al collo è la dimostrazione «che nessun buio dura per sempre».
Intervista ad Alice Bellandi dopo le Olimpiadi
Ed è nuovamente da quel buio che parte per tracciare i contorni della sua felicità, anche ora che i Giochi sono finiti, lei è tornata a casa e la medaglia che popolava i suoi sogni è lì ad attenderla. «Un oro vale sempre» dice mentre guida la sua auto. «Ma per me ha un peso emotivo e personale che va al di là della soddisfazione sportiva. Dentro c’è la mia storia, ci sono le mie gioie e i miei dolori, i tanti momenti in cui ho pensato che fosse finita».
A Parigi ha detto: «Non c’è buio che duri per sempre». Che cosa intendeva?
«Prima dei Giochi di Tokyo ho attraversato un periodo molto brutto. Ero fisicamente viva, ma emotivamente morta. Non sono mai andata in terapia, ma credo non sia sbagliato parlare di depressione. Ero in un loop di negatività: la bulimia, la tristezza estrema. Sembrava che la mia vita fosse un susseguirsi di cose brutte».
Come era scivolata dentro a quel buio?
«È stato un insieme di cose. Ero giovane e incapace di gestire le emozioni. Nessuno attorno capiva quanto stessi soffrendo, neanche il mio allenatore, e nessuno ha saputo aiutarmi. C’era il problema del peso: ogni volta che facevo una gara dovevo perdere molti chili per non mettere a rischio la qualificazione olimpica. Poi, tra una gara e l’altra, ne riprendevo anche 15. Il mio corpo, nel pieno dello sviluppo, è andato in tilt. In più, c’era stata la separazione dei miei genitori e tutto l’insieme mi ha fatta scivolare in un buio che sembrava non finire mai».
Mille volte ho avuto la tentazione di mollare tutto, ma poi dicevo: non ancora
Lei che faceva?
«Aspettavo un miracolo che ovviamente non arrivava. Mille volte ho avuto la tentazione di mollare tutto, ma poi dicevo: non ancora. Oggi, però, so che il mio oro è nato dentro quel buio: il dolore che ho attraversato mi ha dato la forza di essere quella che sono».
Che cosa l’ha fatta svoltare?
«La delusione di Tokyo. Ho cambiato allenatore e mental coach, ho iniziato a farmi seguire sul piano alimentare. Ho imparato ad affidarmi agli altri e ho accettato di competere in una categoria di peso maggiore. Ed eccomi qui: tre anni fa ero sdraiata sul fondo dell’abisso e oggi sono campionessa olimpica».
Che rapporto ha con il suo corpo adesso?
«L’ho accettato. Non è stato facile arrivarci. Prima di Tokyo, quando ingrassavo, c’erano momenti in cui non riuscivo a guardarmi allo specchio e anche dopo quell’Olimpiade ci sono stati altri momenti no. Ci ho messo mesi a rientrare in un peso “normale” e, dico la verità, la mia forma perfetta l’ho trovata solo prima di Parigi. Ma non basta un numero sulla bilancia per volersi bene. Io ho dovuto entrare dentro i miei mostri e imparare ad andarci a braccetto».
A chi deve dire grazie?
«Le altre persone sono un contorno: la sicurezza la devi trovare in te stessa. Un grande aiuto, invece, è arrivato dalla fede. Fino a un anno fa, per me era tutto razionalità. Poi ho cominciato a pregare e questo mi ha aiutato ad avere fiducia. La mattina della gara ero a pezzi. Poi, ho sentito una voce nella mia testa che diceva: “Abbi fede senza vedere” e in quel momento mi sono sentita invincibile».
L’amore che ruolo ha avuto in questo?
«Grande. Ho detto che il mio oro è pieno d’amore e non era una frase fatta. Anche Jasmine, la mia compagna, è una judoka. Purtroppo, non è riuscita a ottenere la qualificazione per Parigi, ma ha messo da parte i suoi dolori e si è dedicata a me in tutto e per tutto. E non sono stati mesi facili: ci sono stati nervosismo, paura, frustrazione…».
La foto del vostro bacio è finita sulle prime pagine dei giornali.
«Un po’ mi dispiace, perché due ragazze che si amano non dovrebbero essere qualcosa che fa notizia. Però, adesso abbiamo queste bellissime foto».
Solo accettando di perdere puoi andarti a prendere la vittoria»
Il coming out nello sport è ancora difficile?
«Non credo. Ovunque trovi persone che hanno qualcosa da ridire. Ma la vita è una e se a qualcuno non piace che stia con una donna, problema suo. Non perdo energie per far cambiare idea a chi non approva con chi vivo».
Non tutti hanno la stessa sicurezza.
«A salvarti non sono gli altri: se fare coming out ti è difficile, è perché devi lavorare su di te. Quando stai bene “dentro” l’opinione altrui non ti importa più. Io però sono stata fortunata: sono sempre stata libera, non ho mai avuto problemi legati alla mia omosessualità, neanche da ragazzina. Non li ho avuti con la mia famiglia e neppure al di fuori».
Lo sport professionistico brucia gli atleti?
«Non è lo sport, è il contorno. È a livello mediatico che si ingigantiscono le cose. La pressione arriva da lì e anche a me è capitato di non reggerla. Ma quando sei in pace con te stesso, niente può turbarti».
Nulla, davvero?
«Il fallimento fa paura ma la sconfitta fa parte dello sport. Prima della gara la mia mental coach mi ha detto: “Se perdi che cosa succede?”. “Andrò avanti”, le ho risposto. Lì ho capito che ero in grado di sopportare la sconfitta, e ho smesso di avere paura. Solo accettando di perdere puoi andarti a prendere la vittoria».