La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per non avere agito «con sufficiente tempestività» a seguito della denuncia presentata da una donna nei confronti dell’ex compagno per stalking e molestie subite nel periodo compreso fra il 2007 e 2009. La condanna è avvenuta in virtù dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. L’articolo recita che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

Stalking e molestie, il quadro dettagliato delle denunce

La donna, il cui nome non è stato reso pubblico, si era rivolta alla Corte di Strasburgo dopo anni di battaglie nei tribunali italiani. Nel 2009 aveva denunciato alle autorità le violenze subite fornendo anche un quadro dettagliato. Ovvero nomi di testimoni pronti a confermare la sua versione, date e orari precisi degli oltre 2500 messaggi ricevuti dall’ex compagno, oltre alla miriade di telefonate.

Nello specifico la donna aveva denunciato di essere stata aggredita dall’ex compagno in tre occasioni. Il primo episodio di violenza si era verificato il 29 marzo 2008. L‘uomo si era scagliato contro di lei mentre era in bicicletta, facendola cadere e prendendole con la forza la borsa. I testimoni presenti avevano chiamato la polizia.

Un secondo episodio di violenza si è verificato il 26 ottobre 2008 quando lui l’aveva afferrata violentemente per il collo costringendola a salire sulla sua auto. Lei aveva chiamato la polizia al rientro a casa e si era poi recata in ospedale. Qui le avevano riscontrati graffi sulla schiena, arrossamento delle vene giugulari intorno al collo, abrasioni multiple e uno stato di shock.

Infine la terza aggressione fisica si era verificata il 30 novembre 2008. La donna si trovava con la sorella a una conferenza quando l’ex l’aveva afferrata per i capelli provando a impossessarsi del suo telefono cellulare, finché lei non era riuscita a fuggire. La donna aveva inoltre denunciato l’uomo per stalking per aver monitorato i suoi movimenti, seguendola in auto, controllando il suo telefono e la sua biancheria intima. Oltre al fatto di averla insultata, allontanata dalla sua famiglia e minacciata, descrivendo tale comportamento come una ricerca di controllo e coercizione.

Donna in semi ombra, viso nascosto

Il caso di stalking e le lungaggini della legge italiana

Nonostante la gravissima situazione la giustizia italiana ha tardato a muoversi. Nel suo pronunciamento, la Cedu sottolinea che ci sono voluti tre mesi solo per registrare la denuncia. Il rinvio a giudizio dell’uomo è arrivato dopo altri quattro anni e la sentenza di primo grado è stata pronunciata oltre sei anni dopo. Non solo: «Sedici mesi dopo – evidenziano i giudici -, la Corte d’appello lo ha assolto per i fatti commessi prima del 25 febbraio 2009, poiché all’epoca il reato di molestie non era ancora in vigore, e ha dichiarato prescritti tutti gli altri episodi successivi».

Cedu: «Tribunali hanno agito in spregio ai loro obblighi»

Uno scenario davanti al quale la Corte di Strasburgo è esplicita, dicendosi «non convinta» che le autorità italiane «abbiano mostrato una reale volontà» di garantire che l’ex compagno della donna «fosse chiamato a rispondere delle sue azioni». Anzi, nella visione dei giudici, «i tribunali hanno agito in spregio al loro obbligo» di assicurare un processo rapido. E hanno permesso così all’uomo, accusato di minacce e molestie, di sfuggire alla giustizia grazie alla prescrizione.

«Autorità italiane incapaci di condurre un’indagine»

«Nelle circostanze del caso, non si può dire che le autorità italiane abbiano agito con sufficiente tempestività e ragionevole diligenza», si legge nella dura sentenza emessa dalla Cedu, che evidenzia come «l’incapacità di condurre un’indagine» efficace «e di assicurare» che l’uomo «venisse perseguito senza indebiti ritardi» abbiano contribuito a portare «all’impunità totale».

Dichiarando il ricorso della donna ricevibile e contestando all’Italia la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, la Cedu ha quindi imposto all’Italia di versare alla donna entro 3 mesi dalla sentenza una somma di 10mila euro. Più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta su tale somma, per i danni morali.