In tempi di fake news e di algoritmi che scelgono per noi a cosa credere, raccontare la verità pare un miraggio. Ma sembra anche che non ci interessi più di tanto. Ci si accontenta della verità che ci è più comoda, quella che non pretende l’esercizio del dubbio o lo sforzo della complessità. Quella che non disturba, non mette a rischio le nostre convinzioni, non rompe il quotidiano quieto vivere. Perché chi ha voglia di mettersi in discussione? Ascoltare la verità è faticoso. Richiede anche coraggio, a volte.
Cecilia Sala voleva raccontare la verità
Per raccontarla ce ne vuole il doppio. Insieme a un pizzico d’incoscienza. Perché talvolta si rischia di essere non capiti o non creduti. In certi casi addirittura attaccati e diffamati. Pensiamo ai messaggi ostili ricevuti da Cecilia Sala durante l’ingiusta prigionia nel carcere di Evin a Teheran. Aveva deciso di andare a vedere con i suoi occhi la situazione delle donne in Iran, usando tutta l’attenzione e la cautela maturate in altre missioni in zone difficili, dall’Afghanistan all’Ucraina, eppure è stata trattata come la ragazzina sprovveduta che gioca a fare l’inviata. «Te la sei cercata» le hanno scritto sui social; «incantatrice di serpenti, ma che ti credevi di fare?». Raccontare la verità, questo Cecilia voleva fare. Sapendo bene che non era accettabile quella artefatta e edulcorata spacciata dalla propaganda di regime. Sapeva di correre dei rischi. Li ha affrontati.
Servono persone che ci costringano a pensare
Bisogna correrli quando si ha l’urgenza di dire cose importanti. Alcuni anni fa ho intervistato Oliviero Toscani e, quando gli ho chiesto se si fosse mai pentito di qualcuna delle sue campagne che hanno fatto discutere, mi ha detto una cosa che mi ha colpito: «Non mi sono mai pentito, ma a volte ho avuto paura prima che uscissero. Non perché pensavo che fossero sbagliate, ma perché quando fai qualcosa di nuovo e importante sei il primo a essere imbarazzato. Ti chiedi: non sarà troppo? Quando mi succede vuole dire che ho fatto qualcosa di interessante». Toscani era un provocatore. Lo hanno sempre dipinto così. Io penso che fosse soprattutto un grande narratore di realtà. Usava l’obiettivo per raccontare cose scomode: l’anoressia, l’Aids, i migranti… Cose di cui non si voleva parlare. Cose guardate attraverso la lente del pregiudizio.
Lui ce le sbatteva in faccia nude e crude, nella loro disturbante verità. Usando talvolta il pretesto della moda per farcele digerire. Non voleva tanto scandalizzare quanto rompere la nostra indifferenza. Scuoterci
Non era una persona facile, Toscani. Quando gli parlavi, e mi è successo più di una volta prima di quella intervista, ti sentivi sempre un po’ in soggezione. Non sapevi mai come poteva trattarti, anche se gli davi ragione. Anzi, soprattutto se gliene davi, perché per lui era importante dissentire. Offrire punti di vista differenti, allenare il pensiero critico. Per questo ora che non c’è più, ci mancherà moltissimo. Abbiamo bisogno di persone che ci fanno sentire scomodi. Che ci costringono a pensare.
Tocca a noi non spegnere la luce
È quello che ci chiede di fare Lia Levi, scrittrice e giornalista, scampata da bambina alle persecuzioni razziali e alla deportazione nei campi di concentramento, parlando dell’inasprirsi dei fenomeni di antisemitismo in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla risposta israeliana nella Striscia di Gaza (scrivo e spero in una soluzione pacifica, nel giorno dell’annunciata tregua). «C’è un clima di odio che pensavo ci fossimo lasciati alle spalle» ha detto nell’intervista, invitando a non mischiare la ferita dell’Olocausto con le politiche di Netanyahu. Il popolo non è responsabile delle scelte di chi lo governa. Questo bisogna spiegare. Più che reprimere chi cerca lo scontro. E aiutare a non dimenticare. Andando nelle scuole, favorendo il dialogo, evitando i pregiudizi e la superficialità. La verità è sempre complessa. Ma bisogna prendersi la briga di raccontarla. In tutti i modi possibili. Con i libri, l’arte, i film.
Come quello che porta sul piccolo schermo Elena Sofia Ricci, interpretando Giulia Spizzichino, ebrea romana sopravvissuta al rastrellamento del ’43. Quest’anno il 27 gennaio, Giornata della Memoria, ricorrono gli 80 anni dalla liberazione dei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ci sono stata a inizio gennaio, sotto la neve e un freddo pungente. Percorrendo in silenzio la strada che costeggiava i blocchi delle punizioni penali e degli esperimenti medici, visitando le baracche in cui i deportati si ammassavano a decine, entrando nelle camere a gas in cui hanno perso la vita 1,1 milioni di persone, ho sentito tutto l’orrore di quel capitolo disumano della nostra Storia. Siamo l’ultima generazione che ha potuto ascoltare i racconti di chi c’era. Dopo di loro, ci ha ricordato la guida, toccherà a noi non spegnere la luce.