Spingere la moglie a non lavorare, per occuparsi di famiglia e casa, può essere considerato reato di maltrattamento. È quanto accaduto nel caso di una donna che ha deciso di rivolgersi al Tribunale dopo che il marito per anni l’aveva spronata a dedicarsi ai figli, salvo però «utilizzarla a pieno regime come contabile nell’azienda di famiglia per un lungo periodo senza versarle lo stipendio e nemmeno gli utili». La Cassazione lo ha ora condannato per maltrattamenti.
Se non lavorare non è una scelta
La sentenza della Suprema Corte è arrivata dopo il ricorso ai giudici da parte di una donna che per anni non aveva lavorato, spinta a occuparsi della famiglia dal marito. La sua, però, non sarebbe stata una libera scelta, bensì il frutto di una serie di pressioni (e costrizioni) da parte del marito. Come si legge dalle disposizioni della Cassazione, che ha confermato una precedente sentenza della Corte d’Appello di Torino, il caso è da considerarsi come una forma di maltrattamento.
La moglie casalinga, “sotto sorveglianza”
Come emerge dagli atti, riferiti sul sito Giurisprudenza penale, l’imputato aveva spinto la moglie a non lavorare, mettendo in atto, però, anche comportamenti maltrattanti. Per esempio, «aveva installato una telecamera sul perimetro esterno dell’abitazione» per controllarne gli spostamenti e registrarli. La donna, infatti, aveva eluso il divieto di fatto di lavorare, trovandosi un’occupazione nel settore del turismo e «affrancandosi dai divieti». Di contro lui la vessava «chiamandola incessantemente e intimandole di tornare a casa davanti a colleghi e clienti, umiliandola».
Potere asimmetrico tra marito e moglie
Per questo è stato ritenuto che il marito le avesse imposto il «ruolo di casalinga» attraverso «un sistema di potere asimmetrico di cui la componente economica rappresentava un profilo di particolare rilievo». Di fatto, quindi, non le permetteva di avere un’indipendenza economica. «Bene hanno fatto i giudici a interpretare le nostre norme penali in modo da considerare penalmente rilevante questa condotta specifica», commenta l’avvocata Claudia Rabellino Becce, esperta matrimonialista e dei diritti delle donne.
Nessuna indipendenza economica
Mentre per la difesa dell’uomo l’essere casalinga e madre a tempo pieno da parte della donna sarebbe stato «frutto di una libera scelta di non svolgere alcuna attività per il desiderio di accudire i figli ed essere mantenuta dal marito», per la donna si sarebbe trattato di una imposizione che le avrebbe impedito di avere una propria fonte di guadagno e dunque l’avrebbe di fatto resa dipendente dal marito. Gli “ermellini”, dunque, hanno ritenuto che anche questo caso rientra nel reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi.
Sentenza importante su violenza economica e maltrattamento
Il tema della dipendenza economica, come forma di violenza, è molto delicato e col tempo sta assumendo sempre più importanza. «In Italia la violenza economica non è qualificata come reato a sé stante. Tuttavia, condotte come la privazione di risorse economiche, il controllo sull’impiego delle stesse o il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento stabilito dal giudice in sede di separazione e divorzio, possono integrare il reato di maltrattamento in famiglia (articolo 572 del codice penale), la violenza privata etc.», chiarisce Rabellino Becce.
Violenza economica e maltrattamento
«Va ricordato che la Convenzione di Istanbul definisce la violenza economica come una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione nei confronti delle donne», spiega ancora l’avvocata. «Consiste in tutte quelle condotte dirette a limitare o a negare l’indipendenza economica della donna e a comprometterne l’autosufficienza. In Italia, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza n. 19847 del 22 aprile 2022) ha definitivamente equiparato la violenza economica alla violenza fisica», chiarisce ancora l’esperta. Di fatto rientrano entrambe nel reato di violenza domestica.
La violenza economica è più subdola
A differenza di quella fisica, che rimane gravissima, la violenza economica «è però più subdola e meno conosciuta. Occorre più attenzione soprattutto nel monitoraggio e nei comportamenti che possono rappresentare un campanello dall’allarme – prosegue l’avvocata – Per questo l’attuale sentenza si inserisce in questo filone interpretativo e assume particolare rilievo, perché rafforza un orientamento importante. Per fare un passo in avanti si dovrebbe riflettere a livello legislativo sull’opportunità di creare una autonoma fattispecie di reato».
Donne ancora vittime della sudditanza economica
Parlare di sudditanza economica nel 2025 assume ancora più importanza alla luce di alcuni dati: «secondo il report “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica”, realizzato da WeWorld e Ipsos, «una donna su due, ovvero il 49% delle intervistate, dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67% tra le donne divorziate o separate. Più di una separata o divorziata su quattro (28%) dice di aver subito decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata prima (Dati 2023)», ricorda Rabellino Becce.
I soldi sono un mezzo di libertà
«I soldi, dunque, sono un mezzo di libertà. Ricordiamo che ancora oggi in Italia una donna su tre non ha un conto corrente proprio né cointestato: servono consapevolezza e azioni concrete – osserva ancora l’avvocata, che esorta: «Il reddito di libertà e gli strumenti a sostegno del lavoro femminile sono tra questi». Strumenti che dunque vanno ulteriormente rafforzati per interrompere una spirale spesso pericolosa.