Sempre più protagoniste nel mondo dello sport, le atlete non riceverebbero le adeguate attenzioni dalla medicina sportiva. E’ quanto emerge da una serie di studi legati alle conseguenze dell’attività sportiva, dai quali emerge la netta sproporzione tra infortuni maschili e femminili.

Secondo The Gist, poco meno del 35% dei soggetti sottoposti a trattamenti medicali post infortunio è donna, pur rappresentando il campione femminile solo il 3-6% dei partecipanti alle ricerche.

Infortuni sportivi, le donne penalizzate nella ricerca

Negli ultimi anni, molti studi si sono concentrati sulle differenze negli infortuni tra uomini e donne. Uno di questi ha dimostrato che le donne hanno il 50% in più di probabilità di subire una commozione cerebrale rispetto agli uomini in sport comparabili, ma tutti i protocolli per i traumi cranici sono specifici per il corpo maschile. Un’altra ricerca ha scoperto che le donne hanno il doppio delle probabilità di subire una frattura da stress durante la corsa, ma tutti i piani di trattamento ruotano attorno alla struttura scheletrica maschile.

Disparità di genere: sottodiagnosi in 700 patologie

La maggior parte dei protocolli di allenamento e prevenzione degli infortuni si basa su studi condotti su uomini, il che non lascia ai medici altra via se non quella di dispensare alle atlete gli stessi consigli elargiti ai loro colleghi maschi.

Secondo uno studio statunitense pubblicato dalla Fondazione Esteve, la disparità di genere nel campo della medicina sportiva porterebbe a frequenti diagnosi errate o sottodiagnosi in almeno 700 patologie.

Anche in caso di infarto, i sintomi tipici a cui le donne devono fare attenzione sono basati sui sintomi prettamente maschili: dolore al braccio sinistro o dolore lancinante al petto. Ma le donne ne potrebbero presentare altri, oltre a quelli già descritti o talvolta in loro sostituzione, come nausea, dolore tra le scapole e dolore addominale.

Infortuni

«Donne trattate come piccoli uomini»

Nello sport, molte donne affrontano rotture del legamento crociato anteriore, un grave infortunio che può compromettere la carriera. Laura Hunter di Sky Sports ha riferito che negli ultimi 20 anni le calciatrici hanno avuto da 4 a 6 volte più probabilità degli uomini di soffrire di una rottura.

«Per troppo tempo le donne sono state trattate come piccoli uomini. Non c’è ricerca. L’intero ambiente sportivo ad alte prestazioni è costruito attorno agli uomini, progettato dagli uomini per gli uomini», ha ammesso il chirurgo ortopedico Nev Davies.

Il caso Hannah Dines

La mancanza di ricerca riguarda in alcuni casi anche l’attrezzatura sportiva che le donne dovrebbero utilizzare. Un esempio? Quello del ciclismo agonistico, dove l’attrezzatura è raramente realizzata pensando al corpo femminile.

Uno studio sull’anatomia delle cicliste ha evidenziato che il 64% delle donne che praticano questo sport lamenta dolore e fastidio persistenti derivanti dall’uso della sella della bici. La ciclista professionista Hannah Dines è stata addirittura costretta a ricorrere a un intervento di labioplastica per risolvere il problema.

Calcio femminile

Donne e sport: perché servono nuovi studi

Juliana Antero, ex sportiva e ricercatrice epidemiologica presso l’Institut National du Sport de l’Expertise et de la Performance, ritiene che siano necessari nuovi studi sulle donne nello sport.

«Alcuni ricercatori giustificano l’assenza di studi adeguati per via del ciclo mestruale, che potrebbe compromettere i risultati», afferma Antero. «Ma è proprio per questo che questi studi sono necessari! – continua -. Se vogliamo ottimizzare i risultati sportivi delle donne, dobbiamo saperne di più sull’impatto della fisiologia femminile sulle prestazioni».

Le mestruazioni sono state a lungo la causa dell’esclusione delle donne dallo sport. Prima della storica iscrizione alla maratona di Boston nel 1967, Kathrine Switzer e le donne di tutto il mondo furono “bandite” dalla corsa poiché l’Amateur Athletic Association sosteneva erroneamente che ciò avrebbe causato infertilità. C’è stato addirittura un periodo in cui le donne non venivano incluse nelle ricerche per paura che qualsiasi cosa venisse testata su di loro potesse danneggiare i feti.