La povertà galoppa, eppure se ne parla poco. Se la marginalità è un tabù, lo è ancora di più per le donne. Su di loro pesa il pregiudizio che “tanto campano sulle spalle degli uomini”, che ci sarà sempre un maschio a cui appoggiarsi o che possono arrangiarsi, perché hanno mille risorse. Ma quali siano queste risorse, non si capisce. E sempre più spesso si ritrovano ad essere donne senza fissa dimora.

Aumentano le richieste d’aiuto

Proviamo a chiederlo a L.C., una mamma single (il marito se ne è andato) che vive a Milano con i suoi due figli nella casa dell’anziano di cui si occupa come badante. Il bimbo piccolo è affetto da autismo, la grande è adolescente. I soldi non bastano. Tutti i giorni ritira il pacco viveri per lei e i figli all’Opera Cardinal Ferrari, onlus storica di Milano che distribuisce cibo e sostegno, offre un centro diurno ai senzatetto e tre residenze sociali.

«Nell’ultimo anno le richieste di aiuto sono aumentate: in questi sei mesi quasi 5.000 persone in più rispetto all’anno scorso, su un totale di oltre 26.000, e circa il 25% sono donne» racconta Giulia Faini, assistente sociale della onlus. «Un numero che rappresenta solo la punta di un iceberg perché le donne che accedono agli aiuti sono una minima parte. Le aspettative e i ruoli di madri, mogli e figlie comportano un maggiore stigma e senso di fallimento per loro. Per questo ci mettono molto di più a contattare i servizi e, di conseguenza, a venire rilevate dai Comuni».

Donne senza fissa dimora: chi si rivolge alle associazioni

Nonostante la vergogna, però, le donne bussano alla porta delle associazioni, sempre di più, come racconta anche Ilaria Manti, responsabile delle politiche di genere dell’associazione Nonna Roma, che nella capitale distribuisce cibo, medicine e vestiti a 10.000 persone. «Vediamo quasi sempre solo donne, sia perché in famiglia sono loro a esporsi, sia perché quelle in povertà sono aumentate.

Moltissime sono giovani, in cassa integrazione, e poi le separate con figli e le anziane rimaste sole. Come Maria di Tor Bella Monaca, vedova, che a 60 anni vive con il figlio e i nipoti: ogni settimana riceve il pacco viveri. O come Ida che, perso il reddito di cittadinanza, a 59 anni non trova lavoro. E poi Anna, una pensione di 300 €: anche lei nell’orbita dell’associazione dopo il messaggio dell’Inps che non avrebbe ricevuto più il sostegno. Anche Sharon deve essere aiutata: il marito lavora in nero e lei, occupandosi dei figli piccoli, non può lavorare.

Poi ci sono le donne estremamente marginalizzate, che si vergognano, anche con i familiari, della loro condizione. Prima di bussare ai servizi sociali, ricorrono a sistemazioni informali, come abitazioni di conoscenti, roulotte, campi, sfuggendo così alle rilevazioni. Ma senza numeri, si sa, non si possono quantificare gli aiuti, già molto scarsi. Nel frattempo aumenta per loro il rischio di sviluppare problemi psichici e dipendenze. «La povertà delle donne è un fenomeno complesso, e il governo e i decisori politici non possiedono strumenti adeguati per studiarlo e quindi cercare di risolverlo» interviene Giovanna Badalassi, cofondatrice di Ladynomics, sito di economia politica di genere e in uscita a breve con il libro (scritto con Federica Gentile) Signora economia. Guida femminista al capitale delle donne (ed. Le Plurali).

La povertà femminile

«Se la povertà in senso assoluto continua ad aumentare, aumenta di più quella femminile, di cui però ci rendiamo conto solo quando esplode: le donne guadagnano, a parità di lavoro, 3.000 € in meno degli uomini, e la loro ricchezza è più bassa di quella maschile del 25%. La conseguenza è che poi a livello individuale il rischio di povertà o di esclusione sociale è più alto di quello degli uomini».

Finché però restano protette dall’ombrello familiare, non avvertono tanto la differenza grazie alla condivisione delle risorse. «Spesso entra in gioco anche la cosiddetta economia informale» prosegue Giovanna Badalassi. «Si arrotonda, magari lavorando in nero, e così il dato della povertà femminile individuale non emerge in tutta la sua gravità. Quando rimangono vedove o si separano, invece, il rischio indigenza è forte, più alto di quello degli uomini. Addirittura, il maggiore rischio di povertà e di esclusione sociale delle donne separate si propaga anche a chi vive con loro. Cioè quasi sempre i figli e le figlie».

Donne senza fissa dimora: una vera e propria emergenza

«Anni fa eravamo in emergenza criminalità, oggi è la povertà il vero problema. Al momento assistiamo 1.265 persone, di cui 724 donne» racconta Pina Andrello, presidente della onlus La speranza di Corsico, il Comune più povero dell’hinterland milanese. «Il blocco del reddito di cittadinanza ha segnato uno spartiacque. Il reddito di inclusione, che l’ha sostituito, ha requisiti molto stretti e soglie ancora più basse. Pagare rette scolastiche, bollette, affitto, qualsiasi medicina è impossibile.

Oggi a chiedere aiuto sono soprattutto donne, in particolare separate con figli piccoli, immigrate o anziane rimaste sole». Come T.P. per esempio, un’ucraina di 63 anni con problemi di salute, rimasta senza un posto in cui dormire dopo la morte dell’anziana signora di cui si occupava. Oppure B.C, una giovane donna separata con un figlio che, in cerca di un appartamento in affitto, nonostante esibisse un contratto a tempo indeterminato da 1.200 € al mese, si è sentita negare la casa perché sola, senza un uomo. Serviva una garanzia maschile.

Donne senza fissa dimora: la povertà abitativa

È la povertà abitativa la nuova emergenza, ancora più sentita dalle donne che subiscono violenza, molte volte costrette a lasciare all’improvviso la casa in cui vivono. Lo spiega Nadia Somma, consigliera della rete D.i.Re. «Nel 50% dei casi la donna non resta nell’abitazione coniugale: spesso rinuncia anche al mantenimento pur di tagliare i ponti con l’uomo violento. E questo vuol dire dover cercare casa». Per gli alloggi popolari, però, ci vogliono in media due anni, e con i contratti di lavoro precari che spesso hanno le donne, trovare una sistemazione è dura. «Per questo le case rifugio stanno diventando case di emergenza abitativa.

Se 30 anni fa una donna usciva dalla violenza in sei mesi, oggi resta in casa rifugio per due anni, proprio per l’impossibilità di pagare affitto e bollette» prosegue. Per molte il reddito di cittadinanza aveva rappresentato la soluzione per trovarsi una sistemazione lontano dall’uomo violento. Ora, l’unica via per chi denuncia è restare in casa rifugio. Per tutte le altre, ci sono le associazioni e i servizi sociali, a cui si avvicinano con vergogna, spesso in silenzio, per poi ritrovarsi, magari, di fronte a svolte imprevedibili. «Sono stati i suoi figli a denunciare il padre violento. Lei non voleva e non me ne aveva parlato » dice Ilaria Manti di una mamma, sua assistita, a Roma. Il pudore delle donne, a volte, è la loro stessa prigione.

I dati

La povertà ha raggiunto nel 2024 i livelli più alti degli ultimi 10 anni: 5.752.000 i poveri in Italia; 2.235.000 le famiglie in stato di povertà (fonte: Istat maggio 2024).

Le donne a rischio povertà sono 2.935.000, 1.300.000 in più degli uomini e il 75% di questa differenza si concentra tra le over 55 (un milione di donne in più degli uomini): si parla soprattutto di separate e anziane vedove e sole.

Le persone che vivono in una famiglia con capofamiglia un uomo hanno un rischio di povertà e di esclusione sociale del 22,2%, inferiore a quello delle persone che vivono con una capofamiglia donna (24%). (fonte: Eurostat)