«Comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato». Questa la motivazione della sentenza depositata nei giorni scorsi con cui i giudici della Corte d’Assise di Modena spiegano perché non hanno condannato al carcere a vita Salvatore Montefusco, l’uomo che a giugno del 2022 imbracciò un fucile e uccise nel Modenese la moglie Gabriella e la figliastra Renata (47 e 22 anni). Un duplice femminicidio, commesso in diretta telefonica, mentre l’altro figlio era in linea con il 112 per dare l’allarme.
Duplice femminicidio, l’imputato «spinto da nefaste dinamiche familiari»
Il femminicida venne arrestato subito dopo ii fatti e l’arma sequestrata. Il 9 ottobre del 2024 Montefusco è stato condannato a trent’anni di carcere contro la richiesta di ergastolo sollecitata dalla pubblica accusa. Secondo la Corte di assise di Modena l’imputato avrebbe agito spinto da motivi «umanamente comprensibili» e per questo la sua condotta è stata sanzionata con una pena minore.
In particolare, secondo le argomentazioni della Corte, «arrivato incensurato a 70 anni l’imputato non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate» tra gli abitanti della casa dove vivevano «e all’esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà».
«Condizione psicologica di profondo disagio»
La sentenza, firmata dal presidente estensore Ester Russo, ricostruisce in 213 pagine il processo sul delitto di Cavazzona di Castelfranco Emilia, concludendo per la sussistenza delle aggravanti del rapporto di coniugio e di aver commesso il fatto davanti al figlio minore della coppia, ma escludendo premeditazione, motivi abietti e futili, l’aver agito con crudeltà e ritenendo assorbiti i maltrattamenti nell’omicidio.
Secondo i giudici il movente «non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico» sulla casa dove vivevano. Ma è piuttosto da riferirsi «alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare» e con essa anche controllo e cura del figlio.
«Black-out emozionale» alla radice del femminicidio
Per la Corte è poi «plausibile» che, come riferito da Montefusco, quando Renata gli disse ancora una volta che avrebbe dovuto lasciare la casa, questo fatto «abbia determinato nel suo animo, come dallo stesso più volte sottolineato, quel black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma» a pochi metri di distanza e uccidere le due che «mai e poi mai» secondo quanto affermato dai testimoni sentiti in aula, aveva prima d’allora minacciato di morte.
«Causale reazione dell’imputato»
La concessione delle generiche considera la confessione, il fatto che l’uomo fosse sostanzialmente incensurato, il corretto contegno processuale e la «situazione che si era creata nell’ambiente familiare e che lo ha indotto a compiere il tragico gesto». Nel giudicare l’equivalenza tra attenuanti e aggravanti non si può non tenere conto, per la Corte, «di tutta quella serie di condotte unilaterali e reciproche che, susseguitesi nel tempo e cumulativamente considerate» se pure non hanno integrato l’attenuante della provocazione «hanno senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato».
Legale di parte civile promette battaglia
«È stato un omicidio avvenuto in diretta telefonica, commesso mentre un altro familiare era al telefono con il 112. Con questa sentenza è passato un messaggio terribile. Se un omicidio in famiglia avviene per problemi legati ad una ‘tempesta emotiva’, si vede dimezzata la pena. Confidiamo nella corte d’Assise d’Appello di Bologna, che riequilibri la pena», ha spiegato dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza l’avvocata Barbara Iannuccelli del foro di Bologna, legale di parte civile dei parenti delle vittime.
Roccella: «Nella sentenza elementi preoccupanti»
Dura la reazione della ministra per la Famiglia Eugenia Roccella: «Leggeremo ovviamente il testo integrale della sentenza, ma se ciò che emerge dagli stralci pubblicati oggi venisse confermato, il pronunciamento della Corte d’Assise di Modena nei confronti dell’uomo responsabile dell’uccisione della moglie e della di lei figlia conterrebbe elementi assai discutibili e certamente preoccupanti che, ove consolidati, rischierebbero non solo di produrre un arretramento nell’annosa lotta per fermare i femminicidi e la violenza maschile contro le donne, ma anche di aprire un vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento».
Semenzato: «Si lascia spazio a infelici alibi futuri»
«Avvilenti dicotomie nei giudizi in magistratura», le parole della presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, Martina Semenzato. «Un passo in avanti con la sentenza della Corte di Assise d’Appello di Torino a favore di Alex Pompa oggi Cotoia, un deciso passo indietro con la sentenza della Corte di Assise di Modena. Un giudizio nel giudizio, dove la soggettività prevale sulla oggettività, lasciando spazio a infelici alibi futuri. Dalla lettura delle motivazioni della sentenza, che ho avuto modo di reperire prima di esprimerne un giudizio, emerge un quadro sconfortante».
Lanzoni (Pangea): «Sentenza di Modena preoccupante»
«In attesa di leggere il testo integrale della sentenza della Corte d’Assise di Modena… non possiamo non mettere in evidenza quanto il ragionamento su cui si basa lo sconto di pena sia pericoloso – afferma Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea -. Pericoloso perché utilizzano ancora una volta si utilizzano termini, linguaggi e motivazioni che non riconoscono la specificità della violenza contro le due donne e dunque il duplice femminicidio: si legge la parola conflittualità laddove invece si deve parlare di violenza fino ad arrivare alla sua massima espressione ovvero il femminicidio di due donne per di più davanti al figlio e si crea una inversione di responsabilità dove le donne sono le carnefici che avrebbero ‘indotto’ l’uomo al compiere il gesto e l’omicida la vittima sopraffatta dal contesto familiare».
Continua Lanzoni: «Non esistono motivi ‘umanamente comprensibili’ per uccidere qualcuno, né dentro la famiglia né fuori la famiglia, affermarlo significa rispolverare pratiche pericolose, come il delitto d’onore o la giustizia fai da te. In questo modo, tutti gli sforzi per produrre quel cambiamento culturale che è alla base di ogni trasformazione positiva sociale, sarebbero vani e risprofonderemmo nel mero patriarcato che è la vera e unica motivazione di tanti femminicidi».
Sentenza di Modena, D.i.Re: «A quale Giustizia possono aspirare le donne?»
D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ravvisa molti motivi di insoddisfazione e preoccupazione nelle motivazioni della sentenza per la condanna a 30 anni di Salvatore Montefusco.
È importante premettere che la CEDU (Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) ha condannato l’Italia per la resistenza di stereotipi e pregiudizi di stampo sessista e per un linguaggio che non ha riconosciuto i diritti delle donne e ha rappresentato le relazioni tra uomini e donne secondo schemi che dovrebbero essere superati. Sono proprio questi gli aspetti che ritroviamo nelle motivazioni della sentenza di Modena e si può verificare, in diversi passaggi:
- La sentenza adotta completamente il punto di vista del femminicida, lo comprende, lo asseconda, mentre manca la lettura dell’asimmetria di potere, ponendo sullo stesso livello la vita delle donne e gli interessi economici dell’autore di violenza: Gabriella Trafandir e Renata Trafandir dipendevano economicamente dall’uomo che le ha uccise che ha utilizzato quella dipendenza in un una logica ritorsiva e ricattatoria.
- Colpisce che nelle motivazioni della sentenza si spendano le stesse parole usate dall’imputato. Non solo Gabriella Trafandir e Renata Trafandir vengono definite “donne” e il loro nome scompare, ma a loro viene riferito lo status di “mantenute”. Scompare per esempio, il valore economico del lavoro di cura svolto da Gabriella Trafandir, mentre il dato che l’uomo avesse duramente lavorato per costruire la casa famigliare viene ripetuto più volte.
- Anche la paura delle due donne viene negata e banalizzata: nella sentenza di parla di vaghe minacce senza considerare che il “brav’uomo” possedesse numerose armi.
- È preoccupante che, in un passaggio, la corte rilevi che Gabriella Trafandir fosse talmente libera da poter uscire la sera senza dare spiegazioni al punto che Montefusco aveva dovuto mettere un rilevatore GPS per sapere dove lei andasse. Ci chiediamo che concetto si ha della libertà delle donne nei tribunali italiani e quale concetto si abbia del controllo maschile?
«Non basta l’elenco che riportiamo per rappresentare l’inaudita violenza di questa sentenza alla luce della lettura delle motivazioni. Rappresenta la cultura patriarcale che conosciamo bene anche nelle aule dei tribunali. Ancora si fa volutamente confusione tra conflitto e violenza facendo arretrare il percorso per l’eliminazione della violenza maschile alle donne, dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. «Lo ripetiamo per l’ennesima volta: chi opera a qualsiasi livello con le donne vittime di violenza e maltrattamento deve essere specificamente formato, altrimenti continueremo a leggere notizie irricevibili» conclude la presidente.