Una nuova ricerca suggerisce che il confine tra vita e morte potrebbe essere meno netto di quanto si pensi. Il giornalista del Guardian, Alex Blasdel, ha raccolto la testimonianza della dottoressa Jimo Borjigin riguardo alcune esperienze di pre-morte.
Il caso della “Paziente Uno”
Era il 2014, aveva 24 anni e scoperto da un mese di essere incinta del terzo figlio quando è improvvisamente crollata sul pavimento di casa. Un paio di anni prima le era stato diagnosticato un disturbo che causava battito cardiaco irregolare e durante le due precedenti gravidanze aveva avuto convulsioni e mancamenti.
Sua madre, con lei al momento dell’ultimo svenimento, aveva chiamato i servizi di emergenza sanitaria. All’arrivo dell’ambulanza, la “Paziente uno” era priva di sensi da più di 10 minuti. Il suo cuore si era fermato.
Condotta al pronto soccorso dell’Università del Michigan è stata sottoposta a defibrillazione. Quando il suo cuore è ripartito è stata collegata a un ventilatore esterno e a un pacemaker e trasferita all’unità di terapia neurointensiva, dove i medici hanno monitorato la sua attività cerebrale. È rimasta in coma profondo per tre giorni, fino a quando la famiglia ha deciso di toglierle il supporto vitale. È a quel punto che la Paziente Uno è diventata oggetto di studio tra i più rilevanti per comprendere cosa accade al cervello quando il cuore smette di battere.
Le testimonianze dei sopravvissuti
Per diversi anni Jimo Borjigin, professoressa di neurologia all’Università del Michigan, si è interessata al tema delle esperienze pre-morte. Aveva letto delle esperienze di alcuni sopravvissuti a un arresto cardiaco che raccontavano di aver vissuto straordinari viaggi psichici prima di essere rianimati. Alcuni hanno riferito di aver viaggiato fuori dal proprio corpo verso fonti di luce dove sono stati accolti da parenti morti. Altri hanno parlato di una nuova comprensione della propria vita o sostengono di aver incontrato esseri di profonda bontà.
Borjigin non credeva che il contenuto di quelle storie fosse vero – non pensava che le anime delle persone morenti viaggiassero effettivamente nell’aldilà – ma sospettava che qualcosa di molto reale stesse accadendo nel cervello di quei pazienti.
La comprensione scientifica della morte
Borjigin presumeva che altri scienziati avessero già sviluppato una comprensione approfondita di ciò che accade al cervello nel processo di morte. Ma guardando alla letteratura scientifica, trovò poche informazioni in merito. Decise allora di capire cosa succedesse al cervello delle persone morte nell’unità di terapia neurointensiva dell’Università del Michigan. E tra di loro c’era la Paziente Uno…
Quando Borjigin iniziò la sua ricerca sulla Paziente Uno, la comprensione scientifica della morte si era infilata in un vicolo cieco. Dagli anni ’60, i progressi della medicina hanno contribuito a rianimare migliaia di persone che altrimenti sarebbero decedute. Tra il 10% e il 20% di loro hanno portato storie di esperienze di pre-morte in cui hanno sentito la propria anima allontanarsi dai propri corpi. Alcuni pazienti hanno addirittura affermato di aver assistito, dall’alto, ai tentativi dei medici di rianimarli. Secondo diversi studi e indagini internazionali, una persona su dieci afferma di aver avuto un’esperienza di pre-morte che abbia comportato un arresto cardiaco, o un’esperienza simile in circostanze in cui potrebbe essersi avvicinata alla morte. Si tratta di circa 800 milioni di anime in tutto il mondo che potrebbero aver messo “un piede nell’aldilà”.
Il via agli studi sulle esperienze pre-morte
Per quanto straordinarie potessero sembrare, molte di queste esperienze erano talmente coerenti da indurre alcuni scienziati a credere che in esse ci fosse un fondo di verità. Negli anni ’70, un piccolo gruppo di cardiologi, psichiatri, sociologi e psicologi sociali in Nord America ed Europa iniziò a indagare se le esperienze di pre-morte dimostrassero che morire non è la fine dell’essere e che la coscienza può esistere indipendentemente dal cervello. Nacque così il campo degli studi sulla pre-morte.
Nel corso dei successivi trent’anni, i ricercatori hanno raccolto migliaia di casi clinici di persone che avevano avuto esperienze di pre-morte. Nel frattempo, nuove tecnologie e tecniche hanno aiutato i medici a rianimare un numero sempre maggiore di persone. “Siamo ora al punto in cui disponiamo sia degli strumenti che dei mezzi per rispondere scientificamente all’annosa domanda: cosa succede quando moriamo?” ha scritto nel 2006 Sam Parnia, specialista in rianimazione e uno dei massimi esperti mondiali di esperienze di pre-morte. Parnia stesso stava ideando uno studio internazionale per verificare se i pazienti potessero avere consapevolezza cosciente anche dopo la morte clinica.
La ricerca sulla Paziente Uno
Nel 2015 esperimenti come quello di Parnia avevano prodotto risultati ambigui e il campo degli studi sulla pre-morte non era molto più vicino alla comprensione della morte di quanto non lo fosse quattro decenni prima. Fu allora che Borjigin, insieme a diversi colleghi, diede il primo sguardo da vicino alla registrazione dell’attività elettrica nel cervello della Paziente Uno dopo che le era stato tolto il supporto vitale. E ciò che è stato scoperto ha il potenziale per riscrivere la nostra comprensione della morte. “Credo che quello che abbiamo trovato sia solo la punta di un iceberg”, ha rivelato Borjigin ad Alex Blasdel. “Quello che c’è ancora sotto la superficie è un resoconto completo di come avviene realmente la morte. Perché lì dentro, nel cervello, succede qualcosa che non ha senso“.
In questo senso spiritisti e i parapsicologi hanno ragione a insistere sul fatto che qualcosa di profondamente strano accade alle persone quando muoiono. Ma avrebbero il torto di presumere che ciò accada in un’altra vita piuttosto che in questa. Almeno, tale è l’implicazione di ciò che Jimo Borjigin ha scoperto indagando sul caso della Paziente Uno.
Esperienze pre-morte: cosa accade al cervello?
Nei momenti successivi alla sospensione dell’ossigeno alla Paziente Uno, nel suo cervello morente si è verificata un’ondata di attività. Le aree rimaste praticamente silenti mentre era tenuta in vita, sono state improvvisamente interessate da segnali elettrici ad alta frequenza. In particolare, le parti del cervello che gli scienziati considerano “zona calda” per la coscienza sono diventate vive. In una sezione, i segnali sono rimasti rilevabili per più di sei minuti, in un altra, si sono manifestati da 11 a 12 volte più alti di quanto fossero prima della rimozione del ventilatore esterno della Paziente Uno.
“Mentre moriva, il cervello della Paziente Uno funzionava come una sorta di iperguida“, ha detto Borjigin. Per circa due minuti dopo che le è stato interrotto l’ossigeno, si è verificata un’intensa sincronizzazione delle sue onde cerebrali, uno stato associato a molte funzioni cognitive, tra cui una maggiore attenzione e memoria. La sincronizzazione si è attenuata per circa 18 secondi, quindi si è nuovamente intensificata per più di quattro minuti. Svanita per un minuto, è riapparsa in seguito per la terza volta”.
“C’è qualcosa di vivo nel cervello morente”
In quei momenti, diverse parti del cervello della Paziente Uno erano improvvisamente in stretta comunicazione tra loro. Le connessioni più intense sono iniziate immediatamente dopo l’interruzione dell’ossigeno e sono durate quasi quattro minuti. C’è stata un’altra esplosione di connettività più di cinque minuti e 20 secondi dopo che le era stato tolto il supporto vitale. In particolare, le aree del suo cervello associate all’elaborazione dell’esperienza cosciente – aree attive quando ci muoviamo nel mondo della veglia e quando facciamo sogni vividi – comunicavano con quelle coinvolte nella formazione della memoria. Lo stesso vale per le parti del cervello associate all’empatia. “Proprio mentre scivolava irrimediabilmente verso la morte, qualcosa di sorprendentemente simile alla vita si è mosso per diversi minuti nel cervello della Paziente Uno”, continua Borjigin.
Considerati i livelli di attività e connettività in particolari regioni del suo cervello, Borjigin ritiene probabile che la Paziente Uno abbia avuto una profonda esperienza di pre-morte con molte delle sue caratteristiche principali: sensazioni fuori dal corpo, visioni di luce, sentimenti di gioia o serenità e rivalutazioni morali della propria vita. Naturalmente la Paziente Uno non si riprese, quindi nessuno può dimostrare che gli eventi straordinari avvenuti nel suo cervello morente siano sinonimo di attività esperienziali.
L’attività cerebrale della Paziente Uno – e quella nel cervello morente di un altro paziente studiato da Borjigin, una donna di 77 anni conosciuta come Paziente Tre – sembra tuttavia chiudere la porta all’argomentazione secondo cui il cervello sempre e quasi immediatamente cessa di funzionare nei momenti successivi alla morte clinica. “Il cervello, contrariamente a quanto tutti credono, è in realtà super attivo durante l’arresto cardiaco – ha detto Borjigin -. La morte potrebbe essere molto più viva di quanto avessimo mai pensato “.
La morte cerebrale potrebbe essere reversibile?
Intanto stanno emergendo prove che anche la morte cerebrale potrebbe un giorno essere reversibile. Nel 2019, gli scienziati dell’Università di Yale hanno raccolto il cervello di maiali decapitati in un macello commerciale quattro ore prima. Ne hanno irrorato il cervello per sei ore con uno speciale cocktail di farmaci e sangue sintetico. Sorprendentemente, alcune cellule del cervello hanno mostrato nuovamente attività metabolica con sinapsi che si sono addirittura attivate. Le scansioni del cervello dei maiali non hanno mostrato l’attività elettrica diffusa che tipicamente associamo alla sensibilità o alla coscienza. Ma il fatto che ci sia stata qualche attività suggerisce che le frontiere della vita potrebbero un giorno estendersi molto più in là nel “regno della morte” di quanto la maggior parte degli scienziati attualmente immagini.