Come ogni estate, torna il tema delle donne musulmane in piscina o al mare, vestite o col Burkini. Stavolta lo solleva la sindaca di Monfalcone, la leghista Anna Maria Cisint, che scrivendo una lettera aperta alla comunità musulmana locale, definisce «inaccettabile il comportamento degli stranieri musulmani che entrano abitualmente in acqua con i loro vestiti: una pratica che sta determinando sconcerto e che crea insopportabili conseguenze alla salvaguardia del decoro». Segue l’annuncio di «un apposito provvedimento a tutela dell’interesse generale della città e dei nostri concittadini».

Si può imporre alle donne di spogliarsi o vestirsi?

Ma davvero stare vestite al mare è una questione di decoro? «Che regola lo dice? Chi lo decide? E si può imporre alle donne di spogliarsi? Sarebbe lo stesso che imporre loro di vestirsi». Ci gira le sue riflessioni Sumaya Abdel Qader, una delle fondatrici dei Giovani Musulmani d’Italia, sociologa e ricercatrice, mamma di tre figli, speaker e scrittrice (l’ultimo libro è Quello che abbiamo in testa). «La politica non fa nessun passo avanti, mentre la società invece sì. Le donne musulmane a cui lei vorrebbe imporre il costume, stanno andando al mare, e ci vanno in compagnia, in un luogo pubblico: dove sarebbe la segregazione? La sindaca ha dichiarato che il suo provvedimento sarebbe a salvaguardia della libertà femminile, ma su che basi sostiene che le donne musulmane in Italia sarebbero segregate? Non si può negare che esistano casi e situazioni critiche o problematiche ma non si può generalizzare, non è giusto e si ignora il grande cambiamento e le lotte di molte donne e uomini musulmani contro i retaggi culturali patriarcali e misogini che ancora influenzano le vite di molti e l’interpretazione del Corano. E poi attenzione: le scollature e gli abiti cortissimi secondo l’Occidente sono espressione di libertà, ma possono esserlo come possono essere sessualizzazione e oggettificazione del corpo femminile. Quando parliamo di libertà, perché si cerca di imporre sempre la visione occidentale?».

In molti Paesi si fa il bagno vestiti

Sumaya Abdel Qader sta seguendo fashion studies e ha quindi un osservatorio privilegiato su look, stili e tendenze. «Nella maggior parte del mondo donne e uomini vanno al mare vestiti. In Australia si vedono sempre più maniche lunghe per proteggersi dal sole, ma anche in America molte donne scelgono di non esibirsi. In Cina nessuna usa il costume, addirittura le donne asiatiche si coprono il viso con la “facekini”, una maschera anti sole per tutelare la chiarezza della pelle. Eppure nessuno dice niente. Invece le donne musulmane darebbero fastidio.

Andare vestiti al mare minaccerebbe l’igiene

La sindaca dice addirittura che sarebbe una questione di igiene andare al mare in costume: quindi vuol dire che le donne musulmane sono sporche? Questo è razzismo. Eccoci quindi ancora allo stereotipo dello straniero cattivo, brutto e sporco». Un cliché ormai vecchio, che la politica tira fuori quando è a corto di argomenti (o di consenso), stuzzicando la pancia della gente. «Dobbiamo uscire dalla polarizzazione del dibattito, dallo schema velo-non velo. La realtà sta cambiando grazie ai giovani: occorre solo ancora un po’ di tempo» dice la sociologa. «Lo stigma sul velo si sta pian piano superando: il problema è che non si guarda al cambiamento ma al singolo caso che fa scalpore, magari estremo. Non si cercano soluzioni, ma lo scontro» dice la scrittrice. «Oggi anche in Italia moltissime ragazze musulmane studiano e si laureano: abbiamo chirurghe, primarie ospedaliere, ingegnere, psichiatre. E poi più dei coetanei maschi, si candidano in politica, proprio per cambiare la realtà. Molti centri e gruppi soprattutto di giovani si stanno occupando di lottare contro la segregazione femminile».

«Sempre più donne col burqa»: ma è vero?

La sindaca di Monfalcone nota anche la «sempre maggior presenza in città di donne con il burqa e l’integrale copertura del volto che impedisce ogni identificazione, evocativa d’una visione integralista, parte anche questa di atteggiamenti e una volontà di non rispettare regole e norme dei Paesi di arrivo». Commenta Sumaya Abdel Qader: «È in Bangladesh che si sta notando un aumento delle donne coperte integralmente, non in Italia, e comunque è solo una questione di tempo» precisa la sociologa. «Oltretutto il burqa è l’abito delle donne dell’Afghanistan, quasi impossibile vederlo qui da noi: perché evocare lo spauracchio di quella dittatura? Inoltre, se a una donna si chiede di identificarsi, il velo viene sollevato. La legge quindi sarebbe salva».

Cosa dice il Corano sul velo?

Dobbiamo uscire dalla nostra visione di voler salvare il mondo e le donne. La stessa che ci fa ogni volta chiedere: ma è il Corano a volere le donne coperte? «Il Corano va interpretato, c’è chi legge il velo come un precetto e chi no, si tratta comunque di un esercizio spiritale. La cosa fondamentale è non imporre una lettura, né l’altra. La vera libertà è poter scegliere. Nella mia famiglia qualcuna porta il velo e qualcuna no, c’è una pluralità di visioni. Chi ha ragione? E siamo sicuri di voler arrivare a una conclusione?».

Basta velo-non velo, il punto non è questo

La querelle vera non è velo o non velo, burkini o non burkini, ma il fatto che l’immigrato deve diventare alleato della politica, non il nemico da combattere. «Dove le amministrazioni locali hanno impostato un buon dialogo con la comunità musulmana – conclude Sumaya Abdel Qader- la differenza è palese: è tutta la società a crescere».