Ci sono crimini così odiosi che hanno una sorta di priorità su altri. Crimini che per la loro particolare gravità e l’impatto a 360 gradi sulla vita delle persone, devono mobilitare tutta la società, le istituzioni, gli Stati. Sono i reati di mafia, il terrorismo, la tratta di esseri umani, che vengono definiti anche “eurocrimini”. Al Parlamento europeo si sta discutendo in questi giorni della possibilità di aggiungere a questo elenco la violenza contro le donne, modificando l’articolo 83 del TFUE (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea).
La violenza come “eurocrimine”
Violenza di genere non vuol dire solo femminicidio: questa è la forma più grave (finora, viene uccisa una donna ogni tre giorni in Italia, cinque alla settimana in Europa ). C’è un’intera catena di reati a cui le donne e le persone LGBTQ+ di tutto il mondo sono esposte: molestie, stalking, violenza sessuale, violenza psicologica in coppia, economica, maltrattamenti. Tutti questi reati sono espressione di diritti negati e di una parità che in molti Paesi, anche l’Italia, è ancora lontana. Quello a cui oggi insomma le cronache dei tg ci stanno un po’ abituando (perché l’altra faccia della maggiore visibilità è l’assuefazione), potrebbe diventare un’emergenza criminale europea. «Nei fatti, un’emergenza lo è già, e a livello mondiale» ci spiega l’eurodeputata Pina Picierno, relatrice ombra del documento che andrà votato dal Parlamento e che – se approvato – si trasformerà in una risoluzione. «La risoluzione diventa il punto di partenza – prosegue – per far sì che la Commissione europea modifichi l’articolo 83 del TFUE, quello che regola appunto gli “eurocrimini”. Stiamo parlando di poter considerare in futuro la violenza di genere come un reato gravissimo, contro cui tutti gli Stati europei sarebbero costretti ad agire in modo uniforme. Per esempio i tassi di condanna dei responsabili di violenze contro le donne, in particolare lo stupro e l’aggressione sessuale, in molti Paesi sono a livelli inaccettabili». E ancora: «Stiamo assistendo a una regressione dei diritti delle donne. In Polonia l’aborto è appena diventato illegale, la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul (il documento del 2011 che per la prima volta stabilisce la parità di genere come priorità degli Stati) e altri Paesi stanno minacciando di farlo. Ogni Stato insomma va per conto suo rispetto a un fenomeno che invece richiede una lotta prioritaria e coordinata».
Occorre saper leggere la violenza
La risoluzione, una volta emanata, diventerebbe una sorta di cassetta degli attrezzi per agenti di polizia, avvocati, psicologi, giudici. «Tutti gli operatori sarebbero costretti a confrontarsi con i colleghi europei, affinando le tecniche d’indagine e soprattutto migliorando la propria cultura». A sostenere la necessità di una svolta culturale a tutti i livelli è il magistrato Rosario Caiazzo, giudice della Suprema Corte di Cassazione, relatore della recente ordinanza che ha escluso ogni dignità scientifica alla Pas. «Le leggi sono buone, ma senza un cambiamento culturale – da parte di tutti – non possono funzionare. È sul modello dominante dell’uomo che nega il diritto di libertà alla donna che bisogna agire, a partire dalla scuola: in Germania per esempio sono stati stanziati 35 milioni di euro per campagne di sensibilizzazione sugli stereotipi dominanti, con l’obiettivo di scardinare la violenza alla base dei rapporti tra i sessi».
La violenza non viene riconosciuta
Il problema maggiore della violenza di genere, infatti, è che non viene riconosciuta, spesso proprio dai giudici. «Cosa si intende per violenza? Come si definisce? Quali sono le sue forme? Come interpretare, in poche parole, ciò che una donna racconta in caserma o al pronto soccorso?» prosegue l’onorevole Picierno. «Troppe volte la violenza viene ridotta a conflitto di coppia e la violenza assistita, quella sui bambini, neanche presa in considerazione. Ed ecco che il rifiuto di un figlio verso il padre viene con troppa frequenza considerato come conseguenza del comportamento alienante della madre, chiamando in causa la cosiddetta PAS, usata in moltissimi tribunali» (questa, oltre tutto, è un’emergenza solo italiana, per cui il nostro Paese e i suoi tribunali sono stati sanzionati dall’Unione Europea).
Violenza: la vittimizzazione secondaria
Anche un medico deve sapere che dietro a una donna che dice di essere caduta dalle scale per la terza volta, potrebbe esserci una violenza di coppia. E deve prendere in carico la donna usando un certo linguaggio e attivando un certo protocollo, per far sì che lei, vittima, si senta protetta e non vittimizzata una seconda volta. «Ancora oggi – prosegue Pina Picierno – di fronte a chi denuncia, il pensiero prevalente – anche delle forze dell’ordine – è: “Ma sei sicura? Tu cos’hai fatto per provocare quella situazione? Non potevi evitarlo?”. E questo succede a livello mondiale».
La violenza è un fenomeno è mondiale
Nel documento si leggono gli ultimi dati raccolti, che comunque sono vecchi e solo la punta di un iceberg perché il sommerso ha dimensioni gigantesche, per ora incalcolabili. Nell’Unione Europea una donna su tre, cioè 62 milioni di donne, ha subito violenza sessuale e/o fisica dall’età di 15 anni. Una donna su due (55 %) è stata vittima di molestie sessuali. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) a livello mondiale quasi un terzo (27 %) delle donne tra i 15 e i 49 anni che hanno avuto una relazione ha affermato di essere stata vittima di una qualche forma di violenza fisica e/o sessuale da parte del partner. A livello mondiale, ben il 38 % di tutti gli omicidi di donne è commesso dai partner di queste ultime.
Occorrono nuclei antiviolenza come per l’antimafia
Ma se il problema è così radicato, c’è bisogno di altre leggi per affrontarlo? «Le leggi in Italia sono buone, ma ciò che serve adesso è cambiare la realtà culturale che ispira la violenza di genere: il modello di moglie e marito, lui che non tollera le decisioni di lei, lei percepita come una proprietà. Tutti costrutti che vanno man mano svuotati» dice il dottor Caiazzo. Cristiana Coviello, avvocata per i diritti delle donne, come ama lasciarsi definire, conferma che sì, «in Italia sulla carta le cose funzionano ma nei fatti le donne non si sentono protette. Chiediamoci perché». E l’avvocata snocciola una serie di questioni che potrebbero davvero cambiare volto con la nuova risoluzione. «La durata dei processi, innanzitutto: il fatto di considerare i reati di violenza come quelli di terrorismo o mafia, potrebbe abbreviarne i tempi (oggi durano anche fino a 8 anni). Si potrebbe agire anche sulla vittimizzazione secondaria, perché diventerebbe obbligatorio mettere a regime un certo approccio, da rendere uniforme e condiviso. La formazione di chi ha a che fare con le donne vittime di violenza infatti è cruciale: si devono creare dei nuclei, come l’antimafia o l’antiterrorismo, in modo che tutti gli operatori – dai poliziotti agli psicologi ai giudici e avvocati – siano specializzati in questi reati, per evitare per esempio la classica domanda: “Ma come ha fatto a stare 20 anni con un uomo così?”».
I costi economici della violenza superano quelli di mafia e terrorismo
I margini di intervento sono tanti perché la violenza è un fenomeno molto complesso, dalle implicazioni psicologiche ed economiche fortissime, di cui non si parla mai. Spiega l’avvocata che «Gli effetti psicologi causati dalla violenza di genere sono pesanti e si riverberano anche sulla capacità di cercare lavoro. Altro tema l’onere finanziario che incombe sulle vittime nell’intraprendere un’azione legale».
Nel documento si legge che «I costi annuali della violenza di genere per la società sono stimati a 290 miliardi di euro di cui da 49 a 89,3 miliardi per molestie e stalking online. Questi costi superano quelli di mafia e terrorismo».
Bisogna lottare contro il pregiudizio
Se il problema è comune a tutto il mondo, è vero che la violenza attecchisce meglio laddove c’è un terreno fertile. E l’Italia ha un bell’humus che nutre la violenza contro le donne, come sottolinea l’avvocatessa: «Accanto alla battaglia in punta di diritto, ci dev’essere una battaglia culturale. L’una non esclude l’altra. Prima dei reati occorre combattere il pregiudizio e si può fare solo lavorando con i giovani: le donne devono essere davvero alla pari, avere le stesse opportunità nella coppia, nei luoghi di lavoro, nei consigli di amministrazione, nella politica, ma devono anche poter disporre della libertà del proprio corpo, della salute riproduttiva, dell’aborto. La violenza è uno squilibrio di potere e affonda le sue radici nella libertà negata alle donne, una libertà che ancora non esiste se di fronte a una violenza sessuale continuiamo a chiederci “Ma sarà vero? Ma lei cos’avrà fatto?”. E non deve neanche valere la “scusante culturale”: la vicenda della povera Saman deve insegnarci che l’arretratezza culturale non può essere un’attenuante ma, semmai, un’aggravante».