Questa volta nessuna chiusura del fascicolo: le indagini sui messaggi d’odio da parte degli haters di Liliana Segre proseguono e per 7 dei 17 presunti autori è stata chiesta l’imputazione coatta mentre per altri 9 che non erano indagati il giudice ha ordinato l’iscrizione nel registro. Si tratta di una novità importante perché si è deciso di non ignorare il razzismo online.

Le indagini sugli haters di Liliana Segre

Il caso riguarda 246 messaggi di odio pubblicati tra il 2022 e il 2024 sui social, in particolare Facebook e X (ex Twitter). Erano tutti rivolto contro Liliana Segre e provenivano complessivamente da 102 persone, alcune delle quali residenti nel Nordest tra le province di Treviso e Trieste. Tra loro anche Gabriele Rubini, meglio noto come chef Rubio, per il quale però è stata disposta l’archiviazione.

La svolta sul caso haters di Liliana Segre

La svolta sul caso che riguarda la 94enne senatrice, scrittrice e testimone dell’Olocausto è arrivata dopo che lei stessa aveva presentato numerose querele e si era battuta perché si andasse a fondo. Ora le indagini proseguiranno, dal momento che il gip di Milano Alberto Carboni ha ordinato alla Procura di identificare con nuovi accertamenti 86 account, accogliendo di fatto l’istanza ad andare avanti col procedimento avanzata dalla stessa Segre. Il reato è diffamazione con l’aggravante della discriminazione dell’odio razziale.

Basta impunità agli haters

La decisione segna un cambio di passo importante, perché di fatto si è voluto affermare che nessuno può sentirsi libero di insultare sul web impunemente, colpendo la reputazione di altri, diffamando e pubblicando messaggi di odio. Insomma, basta al razzismo 2.0: «È un segnale forte dopo la presa di posizione di Liliana Segre che non ha rinunciato a denunciare gli autori degli insulti. Non era la prima volta che ne riceveva, ma oggi si vuole dare un messaggio chiaro: non si può più accettare la normalizzazione di un fenomeno che era in corso da tempo», commenta Stefano Pasta, autore di Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, ricercatore del Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia (CREMIT) dell’Università Cattolica.

Stop al tabù sul razzismo online

«Il caso Segre è l’esempio di come in passato si siano accettate certe modalità di espressione, considerandole episodi isolati o minori, che invece rappresentano forme di odio a tutti gli effetti – prosegue Pasta – Di fatto, quindi, è caduto un tabù su un fenomeno grave e che stava vedendo una progressione preoccupante: la sempre maggior accettazione di comunicazioni più violente. È ciò che si definisce la disinibizione tossica».

Cresce la disinibizione tossica: cos’è

«Alcune prese di mira nei confronti di personaggi pubblici sono state normalizzate, le si è considerate appunto come forme di espressione “normali” sui social network, perché questi sono ritenuti spazi pubblici in cui è lecito anche insultare. È questa la disinibizione tossica, che però non può essere consentita. Se guardiamo alla storia recente, negli ultimi 10/15 anni si è permesso che nel dibattito pubblico fossero tollerate sempre più espressioni di odio e sempre più virulente. Per questo è importante il segnale che è appena arrivato dal Tribunale: perché riguarda tutti, non solo i personaggi pubblici», sottolinea Pasta.

Le vittime degli haters sono donne o membri di minoranze

Liliana Segre, infatti, non è la sola ad essere diventata bersaglio degli haters: «Le vittime sono trasversali: hanno età ed esposizione pubblica diverse, o appartengono a gruppi differenti. Spesso sono espressione di minoranze o sono considerate fragili come le donne oppure sono rappresentative di messaggi, come la prima infermiera vaccinata d’Italia – spiega il ricercatore – Ma esiste una intersezionalità per cui alcuni soggetti sono colpiti per più aspetti identitari: Segre, per esempio, è donna, ma anche testimone della shoah e del mondo politico- in quanto senatrice a vita. Inoltre è un personaggio pubblico e ha preso posizione su temi come i vaccini e l’immigrazione, ed è anziana».

Chi sono gli haters oggi?

«Un profilo pubblico espone maggiormente agli hate speech, ma la stessa virulenza può colpire chiunque, magari a partire da una foto pubblicata sul proprio account social, per motivi estetici per esempio», spiega ancora Pasta. Se il bullismo è sempre esistito, la dimensione social ha avuto l’effetto di amplificare certi fenomeni e di far aumentare gli odiatori: «È la pervasività ad essere cambiata – conferma il ricercatore – Gli haters sono tanti: alcuni appartengono a gruppi ideologici che fanno dell’odio una propria ragione identitaria ma altri, con i quali io stesso ho chattato, sminuiscono la gravità dei loro messaggi e non si definiscono razzisti. Il problema è che con i loro contenuti finiscono con il rendere socialmente accettabile l’esternazione di messaggi d’odio».

Siamo tutti potenzialmente vittime di haters

Lo stesso Pasta ricorda di un utente che aveva invitato allo stupro di una giovane: «Quando gli ho chiesto se si rendesse conto di quanto avesse scritto, mi ha risposto che la sua era solo una battuta». I social alimentano questi fenomeni perché «vivono di polarizzazione, la quale a sua volta agevola le logiche commerciali sulle quali si fondano le piattaforme». Non solo: «con gli anni hanno contribuito all’affermazione di pensieri sempre più semplici, superficiali e veloci, al posto di quelli più riflessivi. Forse siamo stati troppo accondiscendenti nel non chiedere maggiori responsabilità alle piattaforme, che invece hanno a tutti gli effetti hanno un ruolo di mediazione culturale importante».

Più responsabilità per le piattaforme social

Oggi arginare il fenomeno è difficile e la via giudiziaria, come nel caso di Segre, non è la sola: «Le leggi invocate anche in questi giorni per molti anni non sono state applicate, forse pensando che i social non fossero uno spazio reale – riflette Pasta – Invece i gestori delle piattaforme sono dei player importanti e vanno responsabilizzati. Rispetto al mondo statunitense, dove pure sono nati (e dove una realtà come il Ku Klux Klan, simbolo dell’odio che uccide, non è al bando), la cultura europea può comunque giocare la sua parte, perché è figlia del dramma della shoah».

Le leggi europee contro l’odio

«Per questo, pur con molti limiti, il Digital Service Act ritiene che sia possibile porre vincoli per fermare alcune forme d’odio estreme sui social. I grandi del web, dove esiste un oligopolio di fatto, sono società che legittimamente mirano al profitto e hanno interessi politico-culturali: forse la convivenza civile non è tra le loro priorità, ma occorre insistere perché aumenti la loro responsabilità nel controllo dei contenuti», conclude Pasta.