Volontari? no. Attivisti? neppure. Eroi? men che meno. I cooperanti internazionali sono i professionisti dell’aiuto umanitario che lavorano in situazioni di emergenza e zone di guerra. Come l’Ucraina e Gaza.
I cooperanti
«Prima dello scoppio del conflitto, mi dedicavo principalmente ad attività di approvvigionamento idrico, igiene e sicurezza alimentare, che la mia organizzazione, Azione contro la Fame, porta avanti a Gaza da quasi 20 anni. Poi si è resa necessaria la risposta umanitaria d’emergenza, ossia l’erogazione rapida di aiuti per garantire la sopravvivenza degli abitanti della Striscia, che in questo momento è a repentaglio ovunque». Chiara è una “cooperante internazionale”, una di quei professionisti – per lo più giovani e, soprattutto in Italia, in maggioranza donne (62% su quasi 3.500 operatori) – che decidono di mettere competenze ed energie al servizio degli altri, ovunque ce ne sia bisogno.
Sebbene oggi non sia più a Gaza, Chiara continua a lavorare a distanza alle operazioni umanitarie in corso. Che sono complicatissime, come forse mai prima. «Le persone sono rimaste senz’acqua, cibo, elettricità, casa» continua. «Il flusso di aiuti umanitari è quasi impossibile: prima attraversavano il confine circa 500 camion di aiuti al giorno, ora a malapena 100. E gli operatori sono esposti agli stessi rischi della popolazione, perché nessuna zona è al sicuro». In situazioni critiche Chiara aveva già lavorato «in Sierra Leone subito dopo la guerra civile, ma quello di Gaza è un conflitto unico perché c’è un’ostruzione quasi totale, che non permette di fare arrivare alcun genere di aiuto».
Il lavoro dei cooperanti
Il tipo di attività svolte dai cooperanti in zone di guerra dipende principalmente da un elemento: se il conflitto sia riconosciuto come tale a livello internazionale oppure no. Dall’Ucraina Gioele Scavuzzo, 33 anni, capomissione per la onlus italiana Soleterre, puntualizza: «Dove si registra la violazione ufficiale di uno Stato sovrano, come è accaduto qui con l’invasione russa nel febbraio del 2022, è più facile intervenire, anche a livello umanitario».
Da agosto dello scorso anno, Gioele abita a Kyiv insieme alla fidanzata Saria Borraccia, 32 anni, cooperante anche lei e responsabile dei programmi Salute per la stessa organizzazione (galeotto fu un colloquio di lavoro a Milano, nel 2020). E se nella capitale, per ora, la situazione è più sotto controllo che in altre aree del Paese, non è comunque possibile stare tranquilli: «La scorsa notte l’abbiamo trascorsa svegli in bagno, perché c’è stato un grande attacco missilistico che, solo a Kyiv, ha ucciso 5 persone e ne ha ferite 50, tutte civili» raccontano.
Le storie di Chiara, Gioele e Saria
La tentazione di chiedere «Chi ve lo fa fare?» è forte, però significa ignorare che Chiara, Gioele e Saria sono dei professionisti, per quanto speciali, e non – come spesso si pensa – idealisti un po’ folli spinti dal desiderio di aiutare chi ha bisogno ma privi di una preparazione specifica. «Un cooperante deve avere, oltre all’imprescindibile dose di umanità, una forte competenza tecnica, necessaria a gestire le varie situazioni di pericolo e a garantire la propria incolumità» chiarisce Gioele, che sempre con Sara aveva già operato in un contesto di emergenza nel 2022 ad Haiti, al 170° posto dell’Indice di sviluppo umano su 189 Paesi secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.
«La situazione lì era così difficile che avevo iniziato ad avere dei leggeri attacchi di cuore» racconta. «Che Saria fosse con me è stata una fortuna, perché si è accorta prima di me che stavo male e mi ha convinto a rientrare». Avere un buon equilibrio psico-fisico è fondamentale per proteggere se stessi e gli altri, perciò ogni agenzia mette a disposizione dei suoi operatori, in aggiunta ai corsi di formazione e sicurezza, un supporto psicologico, specialmente nelle aree più a rischio.
Le competenze indicano la destinazione
In base alle sue competenze, da quelle medico-sanitarie a quelle organizzative, un cooperante sceglie il tipo di settore in cui operare e, di conseguenza, la destinazione. I settori sono tre: sviluppo, emergenza, conflitto. Dipendono dalla situazione socio-politica del Paese dove si va, dal tipo di assistenza che si fornisce alla popolazione e dalla sicurezza garantita agli stessi operatori. In una zona di guerra il pericolo si amplifica, com’è ovvio, anche se le guerre non sono tutte uguali. Per Saria e Gioele, per esempio, ritrovarsi nel mezzo di un conflitto in Ucraina è stato «strano, perché questo è uno Stato europeo. Bombardare Kyiv è come bombardare Firenze». A seconda del contesto e del tipo di missione, per un operatore cambia anche la prospettiva con cui imposta il proprio lavoro. «Nelle attività di sostegno a educazione, emancipazione e sviluppo l’impatto è a lungo termine, in emergenza è più immediato e tangibile» osserva Saria. Anche per questo la tentazione di lanciarsi subito in missioni ad alto rischio, per un cooperante alle prime esperienze, può essere forte. Ma bisogna saper resistere.
«È con il tempo, sul campo, che si imparano a gestire il pericolo, la paura, lo stress, e si tutela la propria incolumità» sottolinea Gioele. Inoltre, «vivere un’esperienza troppo traumatica all’inizio della carriera è controproducente perché potrebbe scoraggiare, mentre lo scopo è quello di dedicarsi a lungo a questo lavoro» conferma Chiara. Lei descrive la sua esperienza a Gaza, prima della guerra, «sorprendente», perché non si aspettava di conoscere «una popolazione così ospitale, aperta e generosa, con tratti tanto simili ai nostri: l’esuberanza, il senso dell’umorismo, la dedizione alla famiglia e alla cucina. E questo ha facilitato il mio adattamento nella comunità».
Il lavoro dei cooperanti chiede molto. Ma restituisce di più
Parlando con i cooperanti si intuisce subito che il loro è un lavoro che chiede molto, però restituisce di più. L’importante è affrontarlo «con consapevolezza, ma anche curiosità e pazienza, perché si ha a che fare con culture molto diverse dalla propria e persone che hanno vissuto traumi» osserva Marika Costariol, 40 anni, attualmente a Milano come Grant Specialist di AVSI nel dipartimento amministrazione e finanza, ma con un passato di esperienze sul campo per altre ong. «La mia prima missione in Ciad è stata la più critica, perché mi sono ritrovata in un villaggio senz’acqua né elettricità, dove la temperatura costante era tra i 40 e i 45 gradi, scottavano anche le maniglie! La notte non dormivo e il giorno dovevo lavorare. Ho anche contratto la malaria, da cui è stato difficile guarire. Quando sono rientrata a casa ero irriconoscibile, tuttavia dopo alcuni mesi sono ripartita».
Il cooperante é come un expat
Alla lunga, la vita del cooperante expat – che, come osserva Chiara, «è agli antipodi rispetto a qualsiasi routine» – è sfibrante. Tutti concordano nel dire che quando si arriva a quel punto sarebbe meglio rientrare.
«Il lavoro sul campo logora, perché non hai mai un momento per staccare veramente e, alle volte, neanche la possibilità di praticare un’attività di svago» racconta Marika. «Per questo io già sapevo che a una certa età avrei smesso, pur continuando a operare nel settore». Certo, capire quando dire basta può essere complicato, ma lo è anche cominciare, sia che dietro ci sia una lunga vocazione sia che si abbia un’illuminazione improvvisa. «All’inizio è importante cimentarsi nel volontariato: con i rifugiati, nelle ambulanze, con il Servizio civile» suggerisce Gioele, che ha partecipato alle operazioni di soccorso dopo il terremoto di Amatrice del 2016. «Esperienze di quel tipo ci espongono al pericolo e ci abituano al confronto con il dolore e la morte. Soprattutto, ci permettono di capire che salvare tutti purtroppo non è possibile, ma aiutare alcuni è già una grande vittoria».