Nella nostra cultura La famiglia è qualcosa di sacro, uno spazio più o meno affollato, in cui però dovremmo sentirci bene e che per questo cerchiamo di proteggere. Anche perché, in un mondo che ha perso molte certezze, abbiamo bisogno di un porto sicuro che ci accolga, non ci giudichi e ci ricordi chi siamo e da dove veniamo. In molti casi, però, la famiglia è anche quello spazio in cui si perpetuano stereotipi di genere e violenza fisica, psicologica ed economica. Proprio per questo nel terzo sondaggio del nostro Osservatorio sui diritti abbiamo voluto indagare cosa pensano gli italiani, e in particolare le donne, sul matrimonio, la genitorialità e il divorzio. E qui analizziamo insieme i risultati, con il commento di alcuni esperti che parteciperanno al tavolo di lavoro che si terrà il 6 giugno all’Università degli Studi di Milano.

Il matrimonio non è più una tutela

Siamo un popolo di romantici? Sembra proprio di sì, a guardare i dati. Per 1 donna su 3 (e per il 40% degli uomini!) il matrimonio è un legame fondato sull’amore. Un’idea poetica condivisa soprattutto dalla Generazione X ma decisamente meno dalle ragazze Millennials e della Gen Z, che invece vedono le nozze come una tutela legale. «Mi stupisce questo dato» spiega Laura Logli, avvocata matrimonialista. «Perché oggi il matrimonio in Italia non offre in realtà grandi tutele. La normativa che lo regola è obsoleta e non risponde più alle esigenze delle giovani coppie». Un esempio? Nel nostro Paese i patti prematrimoniali non sono riconosciuti, a differenza di quanto accade in quelli anglosassoni.

Parlare di soldi quando ci si sposa non è mancanza di amore

«Da noi c’è ancora un forte tabù culturale: quando ci si sposa non si parla di aspetti pratici, economici, logistici, fondamentali invece in caso di separazione» prosegue Logli. Il motivo? Pensiamo che sia mancanza di amore, quando in realtà è una tutela. «Proprio per cancellare questo pregiudizio e creare maggiore consapevolezza, troverei giusto che, accanto al classico corso prematrimoniale di tipo religioso, ce ne fosse uno giuridico-legale per essere messi al corrente di diritti, doveri e tutele a cui si va incontro sposandosi».

È importante di conoscere la giurisprudenza prima di sposarsi

Perché spesso non conosciamo la giurisprudenza, soprattutto noi donne. Sapevi, per esempio, che c’è la possibilità di stipulare un contratto di convivenza, ovvero un accordo scritto che disciplina i rapporti patrimoniali, gli obblighi e le tutele relativi alla vita in comune? «I divorzi di una volta non esistono più. La tutela oggi è minima. Basti pensare che mentre nei Paesi anglosassoni c’è una legge che in caso di separazione prevede la redistribuzione del patrimonio tra i due coniugi, da noi ci può essere un assegno mensile, calcolato in base ai redditi della moglie e del marito (è sempre previsto però in caso di figli minorenni), che tuttavia si può ridurre quando si divorzia» dice l’avvocata. E che spesso gli ex partner non pagano.

La famiglia è ancora un riconoscimento sociale?

A stupire è anche il dato secondo cui il matrimonio per il 16% della Gen Z, ben il doppio rispetto a tutte le altre generazioni, è (ancora) un riconoscimento sociale. «In ognuno di noi c’è sicuramente un bisogno fisiologico di protezione, riconoscimento e sicurezza, economica ma non solo, a cui la famiglia come istituzione sociale deve assolvere. Però credo che i ragazzi oggi cerchino sempre meno una sorta di appagamento sociale dall’esterno. Piuttosto puntano a un’autorealizzazione, a un’affermazione della propria identità e della propria specificità. Il riconoscimento sociale sembra invece passare attraverso la sfera della maternità. Le ragazze sentono cioè di dover essere donne e madri, come se la società le potesse riconoscere solo a partire da quel ruolo» spiega Chiara Vendramini, psicologa clinica, mediatrice familiare e presidente dell’Associazione GeA Genitori Ancòra.

O forse piuttosto è un vincolo?

Forse però, più che un riconoscimento sociale, il matrimonio oggi per i giovani è un vincolo, come sottolinea Marilisa D’Amico, prorettrice dell’Università degli Studi di Milano con delega a Legalità, Trasparenza e Parità di diritti e docente di Diritto costituzionale: «Dal mio punto di vista, soprattutto dalle giovani donne il matrimonio viene vissuto come uno spartiacque che spesso comporta rinunce, sacrifici e limitazioni, perché le ragazze antepongono alle proprie scelte e ai propri desideri quelli del compagno o della famiglia di origine».

Le nascite vanno a picco

Anche se siamo un popolo di romantici, i matrimoni calano: secondo l’Istat, dopo 2 anni di boom, nel 2023 tornano a segnare un -6,7% rispetto allo stesso periodo del 2022. Mentre continuano a diminuire senza sosta le nascite, che nel 2023 scendono ancora del 3,6%. I motivi? Qui le generazioni sono tutte d’accordo: tra le cause principali ci sono gli stipendi bassi e la vita troppo cara. Soprattutto in Lombardia, come dicono i dati dell’Unione Nazionale Consumatori.

L’impegno di Regione Lombardia per la natalità

Dove, proprio per provare a invertire la rotta, la Regione ha investito sulla natalità con uno stanziamento di quasi 14 milioni di euro. «La nostra Regione considera centrale l’assistenza alle donne in gravidanza, alle neomamme e alle donne dimesse dopo il parto. Per questo promuoviamo l’assistenza domiciliare a cura dell’ostetrica, monitoriamo la salute dei primi 1.000 giorni, intendiamo integrare la rete di consultori familiari e sosteniamo una genitorialità responsiva, accrescendo la consapevolezza dell’allattamento e prevenendo fattori di rischio comportamentali» spiega Elena Lucchini, assessora alla Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità. In più, ha ampliato l’offerta di screening ed esami prenatali gratuiti, consentendo l’accesso a terapie efficaci per coppie con problematiche riproduttive e promuovendo un’attività formativa per la tutela e prevenzione della salute riproduttiva tra i ragazzi.

Il peso della famiglia è ancora tutto sulle donne

Ragazzi che, soprattutto nel caso delle Millennials, temono che l’arrivo di un figlio possa incidere sulla loro carriera. E questo perché il carico familiare è ancora sbilanciato a nostro sfavore, come sostiene nel sondaggio 1 lavoratrice su 2. La ragione? I compiti e i ruoli in famiglia sono ancora frutto di una visione stereotipata secondo cui le donne devono farsi carico della casa e della cura mentre gli uomini del denaro. Unica nota positiva: per quasi 1 italiano su 2 occuparsi dei figli è una mansione interscambiabile che possono svolgere sia le mamme sia i papà.

Dovremmo essere noi le prime a rompere gli stereotipi di genere

«La questione dei ruoli è legata a doppio filo con quella degli stereotipi di genere. Ancora oggi in Italia si fa fatica a immaginare una donna che fa carriera, che guadagna più di un uomo e che non si occupa della casa, così come un uomo che fa il papà» riflette Costanza Nardocci, professoressa di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano. «A scardinare questa lettura dicotomica che ci pregiudica tutte, perché ci costringe ad aderire a degli schemi, dovremmo essere in primis noi donne. Dovremmo avere il coraggio di ammettere che non ci può essere un’unica lettura dei nostri bisogni e desideri, che tra noi ci sarà sempre chi sarà contenta di restare a casa a crescere i figli e chi vorrà fare carriera». 

Nelle separazioni i figli hanno il diritto di essere informati

Nonostante siamo convinte che le donne abbiano una capacità maggiore di tolleranza e che – a causa del loro ruolo di collante, del senso di colpa, della paura del giudizio degli amici, della società, della famiglia di origine – facciano più fatica a optare per la separazione, c’è una buona notizia. Secondo gli italiani, è giusto che i figli siano consapevoli di quello succede in casa. A dirlo sono il 91% delle donne e addirittura il 97% degli uomini. «Come ha sancito la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, redatta dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, i ragazzi hanno il diritto di sapere quello che sta accadendo, ma hanno anche il diritto di essere aiutati a comprenderlo e di non essere coinvolti in informazioni che possano influenzare negativamente il rapporto con uno dei genitori e nelle decisioni degli adulti legate alla separazione» spiega Chiara Vendramini.

Dobbiamo mantenere le promesse che facciamo

È importante che i figli si sentano ascoltati e che possano esprimere le loro emozioni: hanno il diritto di essere tristi, arrabbiati, di stare male. E hanno il diritto di avere un tempo, anche se non coincide con il nostro. «Metterli a conoscenza è giustissimo, ma poi loro ci misurano in base al livello di coerenza tra quello che diciamo e quello che facciamo: dobbiamo cioè essere in grado di mantenere le promesse. E non è sempre facilissimo. Lo vediamo nella stanza di mediazione familiare dove sosteniamo i genitori – che stanno elaborando faticosamente la fine di un progetto di vita condivisa, a volte anche di un sogno – a continuare a progettare con l’altro genitore un altro tipo di presente e di futuro legato alla loro relazione con i figli» conclude l’esperta.

Perché la violenza nasce in famiglia

Se pensiamo alla famiglia come spazio di condivisione e protezione, sembra impossibile che sia anche il luogo dove le donne subiscono la maggior parte delle violenze. Eppure, mentre scriviamo quest’articolo, secondo il ministero dell’Interno, dall’inizio dell’anno sono state uccise 30 donne, di cui 28 in ambito familiare e di queste 17 hanno trovato la morte per mano del partner o ex partner. Come mai succede? «Nonostante si continui a parlare di parità, il patriarcato è molto presente nelle relazioni dove ancora oggi si annidano stereotipi di genere che sono l’humus di cui si nutre la violenza maschile. È in famiglia che si manifesta il controllo, la disparità di potere» spiega Anna Agosta, consigliera nazionale di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza.

Il consenso c’è anche nelle coppie

Disparità di potere che può generare abuso, sopraffazione, anche quando si parla di rapporti sessuali nel matrimonio. «Dovrebbe essere chiaro, come un sì o un no, e invece non lo è. Spesso la donna non dice un vero sì, ma semplicemente “cede”. Perché l’uomo non ascolta o non accetta il suo rifiuto o perché ha molto più potere di lei. Bisognerebbe segnare chiaramente il limite: tutto quello che non è “sì” è violenza, anche nelle coppie» continua Costanza Nardocci. Un limite che, come mostra il sondaggio, facciamo ancora fatica a mettere. Se da un lato, per fortuna, solo 1 donna su 10 accetterebbe episodi di violenza fisica e pressioni psicologiche da parte del partner, dall’altro quasi 8 italiani su 10 hanno dichiarato di essere disposti a sopportare sacrifici, situazioni difficili e comportamenti disfunzionali pur di mantenere unita la famiglia. Un dato rilevante per cui, secondo la mediatrice familiare Chiara Vendramini, andrebbero attivate campagne di sensibilizzazione in modo che i ragazzi riescano a mettere a fuoco gli indicatori di una relazione disfunzionale.

La violenza si alimenta in famiglia

«In Italia c’è ancora l’idea che la famiglia, specialmente se ci sono dei figli, debba restare unita» spiega Anna Agosta. «A pensarla così siamo soprattutto noi che, anche se percepiamo che qualcosa non va, tendiamo a giustificare, ci sentiamo in colpa ad andarcene, a togliere il padre ai nostri bambini. Nei centri antiviolenza sono moltissime le donne che ci dicono: “Ma lui con i figli è bravissimo”, senza rendersi conto che un papà violento non è un buon padre. E soprattutto non permette alla mamma di essere una buona madre». E di vedere in modo obiettivo come la violenza sia una spirale da cui noi donne facciamo molta fatica a uscire.

Perché le donne non denunciano le violenza in famiglia

«In primis per paura, anche di non essere credute» continua Anna Agosta. «Poi c’è la motivazione economica. Se non lavorano o se non hanno un reddito sufficiente, come fanno a lasciare il marito e a mantenere i figli? Inoltre sono ancora poche le donne che sanno riconoscere la violenza. Anche quando sembra evidente, molto spesso non hanno la consapevolezza di subirla. Al telefono ci sentiamo dire: “No, non mi picchia, non è violento. Ogni tanto mi tira i capelli e mi lancia qualche oggetto”». Ma come? Se non sappiamo dare un nome a questi comportamenti, figurarsi se riusciamo a riconoscere la violenza più subdola. Come quella psicologica che ti svilisce continuamente attraverso frasi del tipo: “Ma come ti vesti?”,  “Non sai fare la mamma”, “Cosa fai, esci?”. Per non parlare di quella economica. «Non pagare gli alimenti, avere un unico conto che gestisce solo lui, voler occuparsi dei figli in modo condiviso sono strumenti potentissimi di controllo» sottolinea Anna Agosta. Che però, purtroppo, non abbiamo ancora interiorizzato: per 1 donna su 3 rifiutare di pagare gli alimenti non è violenza.

Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano

Consulenza di Di.Re

Partner: Avon – Banco BPM – BioRepack – Generali – Gruppo FS – Jeep – Mundys