Cade oggi il secondo anniversario della morte di Mahsa Amini, la 22enne curda che perse la vita a Teheran, in Iran, dopo essere stata messa in custodia dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, obbligatorio nella Repubblica islamica fin dalla sua fondazione.

L’evento e la sua morte scatenarono un’ondata di proteste anti-governative, che dalla capitale iraniana si diffuse anche in molte altre città dell’Iran nonostante la dura repressione da parte delle forze dell’ordine.

L’eredità di Mahsa Amini due anni dopo la sua morte

Esecuzioni su larga scala, impunità dei colpevoli, parenti in lutto perseguitati: il quadro in Iran è desolante, a due anni da una rivolta popolare che molti speravano segnasse una svolta nella storia della Repubblica islamica.

Secondo i rapporti dell’agenzia per gli attivisti per i diritti umani iraniani Hrana, circa 500 persone, in larga parte manifestanti, persero la vita durante gli scontri, mentre circa 20mila furono arrestati per le proteste e tra i condannati per un ruolo nelle manifestazioni la pena di morte è stata eseguita per almeno 9 persone, che furono impiccate.

In esilio o dietro le sbarre, gli attivisti anti-regime vogliono comunque credere che il movimento di protesta nato dopo la morte in carcere di Mahsa Amini non sia stato vano.

Lo sciopero della fame per commemorare Mahsa Amini

Per celebrare la morte di Masha, il 16 settembre 2022, e il secondo anniversario della nascita del movimento “Donna, vita, Libertà”, 34 donne, prigioniere politiche nel terribile carcere iraniano di Evin, hanno iniziato lo sciopero della fame. Una notizia diffusa dalla Fondazione del Premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi, che si è battuta contro l’obbligo di indossare l’hijab e la pena di morte in Iran e anche lei rinchiusa ad Evin dal novembre del 2021: «Ribadiamo il nostro impegno per l’affermazione della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza e per la sconfitta del dispotismo teocratico. Oggi alziamo più forte la nostra voce e rafforziamo la nostra determinazione».

Murale contro la repressione in Iran

Continua la repressione in Iran

Anche quest’anno la Polizia Morale iraniana ha vietato ogni assembramento sulla sua tomba nel cimitero Aychi di Saqqez, nel nord est del Paese. Dopo la morte di Mahsa i manifestanti, guidati da donne – e denunciando l’obbligo di indossare il velo e il conservatorismo religioso – hanno sfidato le autorità iraniane per mesi, a costo di una pesante repressione.

Sebbene le proteste siano ormai limitate e sporadiche, le autorità continuano a reprimerle metodicamente: l’Iran ha giustiziato dieci uomini condannati a morte per casi legati al movimento, l’ultimo dei quali, Gholamreza Rasaei, 34 anni, è stato impiccato ad agosto, pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente, Massoud Pezeshkian.

I gruppi per i diritti umani hanno denunciato anche il crescente numero di esecuzioni per tutti i tipi di reati, volte a creare paura e a dissuadere gli oppositori da qualsiasi inclinazione al dissenso.

La morte di Mahsa Amini

Mahsa Amini è morta il 16 settembre del 2022, in ospedale, dopo essere stata per tre giorni in coma, pestata a morte dalle Guardie della moralità che l’avevano arrestata in strada a Teheran perché non indossava correttamente il velo. Funzionari iraniani affermarono che la ragazza era morta per un “attacco di cuore”. Un video, secondo fonti dei siti internazionali “modificato” e rilasciato dai media statali iraniani, mostra la ragazza che crolla a terra in un centro di “rieducazione” dove era stata portata per ricevere un “guida” sul corretto codice di abbigliamento. In Iran il velo è obbligatorio per le donne dal 7 marzo 1979, poco più di un mese dopo l’avvento al potere di Ruhollah Khomeini. Secondo l’ayatollah le donne senza velo devono essere considerate “nude”.

Manifestazione a New York contro la repressione in Iran

Onu: «Repressione in Iran crimine contro l’umanità»

A marzo di quest’anno una missione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha concluso che la repressione delle manifestazioni da parte delle autorità è stata un “crimine contro l’umanità”. «A due anni dalle proteste, i leader della Repubblica islamica non hanno ripristinato lo status quo ante né recuperato la legittimità perduta”, afferma Roya Boroumand, cofondatrice del Centro Abdorrahman Boroumand. E «molte giovani donne stanno ancora protestando», aggiunge.