Ricordo una gita scolastica di mio figlio di qualche anno fa, quando era in terza media: destinazione Napoli, due ore e mezza di pullman. I ragazzi partirono alle 7 di mattina dal quartiere Garbatella di Roma, accompagnati da due docenti e due genitori. Alle 7.30 cominciarono i primi messaggi nella chat di classe su WhatsApp. «Tutto bene?». «Sì» rispondeva uno dei genitori a bordo del pullman. «Siamo sull’Appia». «Arrivati al casello» recitava un messaggio dell’altra mamma, 15 minuti più tardi.

Mamme e papà sono sempre in ansia

L’entrata a Napoli fu salutata da una serie infinita di «Daje!», «Magnifico!» di mamme e papà, qualcuno inserì anche foto di fratellini o sorelline festanti per l’avvenuto ingresso senza ostacoli nella città partenopea. È possibile che quel gruppo fosse il più ansioso d’Italia. Nella media, però, è vero che da quando esiste la possibilità di comunicare in tempo reale siamo portati ad attenderci continue conferme. Se, per esempio, uno dei nostri figli in viaggio non ci inviasse entro qualche ora dalla partenza un WhatsApp tranquillizzante, ci vedremmo in preda alle prime ansie. Se poi non rispondesse alle nostre sollecitazioni, scatterebbe un vero e proprio panico.

Come staranno le mamme dei migranti?

Ora, proviamo a immaginare una situazione diversa, all’altro capo del mondo. Nostro figlio, per povertà estrema, guerra, dittatura o sconvolgimenti ambientali, è costretto a migrare. Non viaggerà su aerei o treni: se salirà a bordo di qualche veicolo, sarà un pick up dei trafficanti di esseri umani. Dovrà affrontare viaggi estenuanti, violenze estreme, sarà più volte umiliato e abusato, fino – se resiste – all’arrivo in Libia, il lager a cielo aperto più famoso del mondo. Da lì in poi i più fortunati, sopravvissuti alla macabra selezione naturale, salperanno per il Mediterraneo dove, dal 2014 a oggi, si calcola – per difetto – che siano sepolti circa 31.000 individui. Tutto questo senza avere quasi mai la possibilità di comunicare con la famiglia.

Le mamme dei migranti non conoscono mai la verità

Le mamme dei migranti possono restare mesi senza avere notizie del proprio figlio. Perché il cellulare gli viene sequestrato, perché non ha i soldi per comprare il credito, perché – capita molto spesso – il ragazzo preferisce non sentire la mamma quando vive condizioni di cattività o sofferenza per non farla angosciare di più. Chi tiene conto dei sentimenti di queste donne che vivono sospese per lunghissimi periodi, arrivando a pensare che il proprio figlio sia morto? Chi pensa a padri, fratelli, sorelle, amici? Se c’è una narrazione del fenomeno migratorio che manca più di altre, è quella delle famiglie del migrante, delle mamme in particolare. Un popolo di donne rimaste a casa che perdono sonno e peso, che piangono per settimane, che non capiscono cosa stia succedendo (molte, verrebbe da dire fortunatamente, non vengono a conoscenza, neanche dopo essere rientrate in contatto col figlio, dell’esperienza infernale di viaggio che il ragazzo ha vissuto), che non hanno idea della nuova condizione dei propri ragazzi riusciti ad arrivare in Italia.

Il progetto Mums per le mamme dei migranti

L’infinito dolore della separazione senza notizie, della sospensione che le mamme sperimentano, è l’ennesimo effetto di politiche migratorie costruite sul mito di un’invasione che non c’è, continuando a negare visti e a chiudere i confini. Per far emergere le voci delle madri e comprendere, dalla loro angolatura, un fenomeno complesso spesso banalizzato e strumentalizzato, è partito Mums, un progetto giornalistico ideato e realizzato da chi scrive questo articolo in collaborazione con la redazione di IrpiMedia e finanziato dal Coordinamento Nazionale Comunità Minori (Cncm). Si compone di tre missioni in altrettanti Paesi africani per raccogliere le testimonianze di varie mamme di ragazzi precedentemente contattati e intervistati in Italia. L’obiettivo, oltre alla redazione di articoli basati sulle interviste alle madri e ai figli, sarà la produzione di una serie di cortometraggi – uno per ogni Paese – e di un documentario finale. La prima tappa è stata in Gambia a metà settembre e l’incontro con le mamme è stato molto emozionante.

I figli migranti non telefonano per non far preoccupare le mamme

«Lui lavorava da un meccanico» racconta Adama, mamma di Abdou, un giovane partito ad appena 15 anni, ora residente a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, e impiegato come meccanico. «Una sera non fece ritorno a casa come al solito. Pensai: “Lo avranno trattenuto al lavoro”». Passano le ore, i giorni. Di Abdou nessuna notizia e Adama entra nel panico. «Cominciai a chiedere ad amici, al meccanico con cui lavorava, ma nessuno mi diceva nulla». Abdou aveva messo da parte tutti i soldi che guadagnava ed era partito senza comunicarlo alla madre. Era scappato scegliendo per settimane di non chiamare perché sapeva che «se avessi sentito la voce di mamma, non avrei trovato le forze per proseguire il viaggio». «Dopo qualche giorno mi ha chiamata un suo amico» ripende Adama. «“Abdou è partito” mi disse. “È in viaggio verso la Libia e appena possibile ti telefonerà”. Pensai di morire, per settimane non ho dormito, guardavo i notiziari che parlavano di barche che affondavano, di ragazzini morti, e mi convinsi che sarebbe successo anche al mio Abdou».

Le mamme dei migranti non vedono i figli per anni

Le motivazioni dietro alla scelta di Abdou e la consapevolezza del dolore che avrebbe causato alla mamma, oltre al terrore per un viaggio verso l’ignoto a soli 15 anni, spiegano tanto del rapporto madri-figli in Gambia e probabilmente in tante altre aree dell’Africa. Ha scelto di partire solo per amore della mamma vedova. Non poteva più vederla consumarsi di lavoro per mantenere la famiglia di quattro figli. «Lui è andato via perché voleva aiutarmi e sapeva che, se me lo avesse detto, non glielo avrei mai permesso». L’oscillazione che si immagina nell’animo di Abdou, tra sue paure e pene causate alla madre, è struggente. «Ora il mio ragazzo ci aiuta, manda soldi e sostiene tutta la famiglia» conclude Adama. Ma dal volto, più che serenità, traspaiono la tristezza per la separazione dal figlio che non vede da 6 anni e un velo di angoscia per avere rievocato quei mesi da incubo.

I migranti partono piccolissimi

Jerreh oggi è un operaio di una azienda di macchinari agricoli a Montecchio, Reggio Emilia. Quando ha lasciato Brikama, cittadina gambiana a un passo dall’oceano Atlantico, aveva 16 anni. Anche lui, come Abdou, ha preferito partire senza avvisare e anche lui, come Abdou, ha affrontato i cosiddetti “viaggi della morte” da minorenne. Questo esercito pacifico di poco più che bambini affronta in solitudine esperienze che terrorizzerebbero il più coraggioso degli adulti. Quando arrivano da noi, hanno in genere 16-17 anni, ma sono partiti prima, in alcuni casi estremi (soprattutto in Afghanistan) a età che non arrivano a due cifre. In Italia, al 30 giugno 2024, erano poco più di 20.000, in maggioranza maschi (88,4%), in prevalenza provenienti da Egitto, Gambia, Guinea, Ucraina e Tunisia. Quest’anno, fino ad agosto, ne sono arrivati 4.500 circa, molti meno rispetto agli oltre 18.000 dello scorso, per effetto degli accordi di contenimento dei flussi stretti dall’Italia e dall’Ue con il presidente della Tunisia Kaïs Saïed.

Mariama, mamma di Jerreh
Mariama, mamma di Jerreh

Quando è arrivato a Catania, Jerreh era talmente stremato per le violenze subite e la fatica del viaggio da perdere i sensi e necessitare di un trasporto d’emergenza su un elicottero in ospedale, dove si è salvato per miracolo. Ma questo la mamma non lo sa. «So che il viaggio è stato difficile» dice Mariama, 51 anni e 6 figli da mantenere, anche lei vedova, «però so anche che mio figlio mi ha detto solo una parte di quello che è successo». Jerreh, lasciato il Gambia, è passato per Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger prima di arrivare nel deserto e poi in Libia. Nel percorso ha subìto violenze di vario genere, ha sofferto fame e sete e ha rischiato di morire due volte: in Libia, braccato dai carcerieri che sparavano a un gruppo di ragazzi in fuga da un lager, e sul barcone a un passo dalla Sicilia, quando cominciò a perdere sangue fino a svenire. «Sono rimasta per settimane intere senza sapere nulla di Jerreh, le mie vicine e i miei figli cercavano di farmi coraggio, ma io ero infelice, non riuscivo a lavorare né a cucinare. In quei momenti, più passa il tempo, più ti convinci che è successo qualcosa di terribile al tuo ragazzo».

Le mamme dei migranti sono come le nostre mamme

Lo sanno bene tutte le mamme di giovani migranti. Un’amica di Mariana, il cui figlio è partito nello stesso periodo di Jerreh, non ha avuto la stessa sorte: il ragazzo è morto. La famiglia, ovviamente, non ha neanche potuto riavere la salma. «Se sono serena adesso? Sì, certo, so che si è sistemato, mi chiama spesso e ci aiuta moltissimo» riprende Mariama «Ma se penso alla sofferenza di quei mesi, alle ferite che il mio ragazzo porta dentro di sé, mi sento triste, molto triste». Dietro alle parole di Adama e Mariama, se ci si avvicina, si riesce a udire il grido disperato che sale dalle mamme dei tanti migranti. E ascoltando le loro angosce e le loro gioie, si capisce bene quanto siano come le nostre mamme, e i loro figli come i nostri figli.