Sei in vacanza all’estero e per un corto circuito giudiziario finisci in carcere, senza poter avere un traduttore né chiamare la famiglia o il console. Proprio com’è accaduto a Filippo Mosca e Luca Cammalleri, 29 e 30 anni, due ragazzi siciliani in prigione in Romania per un reato che non hanno commesso: si è addossata la responsabilità un’altra persona, ma ai giudici non è bastato. «I giudici le carte non le guardano neanche» ci dice Ornella Matraxia, la mamma di Filippo, che abbiamo raggiunto a Londra, dove vive con altre due figlie facendo l’insegnante. «Non le hanno guardate neanche in appello quando, il 7 marzo di quest’anno, hanno confermato la sentenza di primo grado a 8 anni e 3 mesi di carcere per traffico internazionale di droga. Anche se sono innocenti».

In carcere all’estero da innocenti

Filippo e Luca stavano per ripartire verso l’Italia dopo qualche giorno in Romania per un festival musicale che richiama ogni anno migliaia di giovani. Un pacco con 150 grammi di hashish destinato a un’amica è stato intercettato e la responsabilità addossata a loro, nonostante la ragazza li abbia scagionati. «Non hanno potuto avere un traduttore né chiamare la famiglia o il console per diversi giorni. Dopodiché sono stati rinchiusi 9 mesi in una stanza di 30 metri quadrati con altri 24 detenuti, tra topi, scarafaggi e un buco per terra come wc, sempre intasato. Hanno subito aggressioni, minacce coi coltelli e torture psicologiche» prosegue la mamma di Filippo. «Ora sono in un altro carcere e chiederemo il trasferimento in Italia, per scontare la pena vicino a casa. Quindi faremo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo».

I debiti per assistere i figli all’estero

Nel frattempo Ornella Matraxia, che è una mamma single, si ritrova con un debito di 30.000 euro tra avvocato italiano e romeno, voli e soggiorni per andare a trovare il figlio, soldi per il traduttore e soldi da spedire in Romania per mantenere Filippo. Già, perché lì i detenuti non sono a carico dello Stato ma delle famiglie. «Esiste un apparato parallelo che foraggia il sistema giudiziario e carcerario, in base al quale più arresti di stranieri si eseguono, più soldi arrivano» denuncia. «Tant’è che a un altro festival musicale, di lì a poco, sono stati arrestati più di 100 ragazzi. Tutti spacciatori?».

L’associazione che difende i detenuti all’estero

Ci si chiede come sia possibile condannare, anche in appello, persone che dimostrano la propria innocenza, con tanto di biglietti aerei e prove documentali. Ci risponde Katia Anedda, sociologa, autrice del libro Prigionieri dimenticati (Historica Edizioni) e presidente dell’associazione Prigionieri del silenzio (prigionieridelsilenzio.com), che ha fondato dopo aver vissuto un’esperienza simile con una persona a lei cara, detenuta ingiustamente per 7 anni e mezzo negli Stati Uniti. «Il caso di Filippo Mosca è emblematico: la sua innocenza è lampante, eppure non c’è stato tutto il clamore mediatico dedicato, per esempio, a Ilaria Salis. I riflettori sulle storie dei nostri connazionali si accendono in base agli interessi della politica».

Non solo Salis: tanti gli italiani dimenticati in carcere

In pochi ci siamo indignati per la morte nel 2010 in un carcere francese di Daniele Franceschi, 36 anni, di Viareggio. O della fine nel 2007 in Messico, a Playa del Carmen, di Simone Renda, rimasto per giorni senza acqua né cibo. Forse ci indigneremo per Cristian Grosso, in cella da 6 anni a Lanzarote per tentato omicidio a causa di una rissa nata per difendere la sua ragazza infastidita da un gruppo di giovani, lottatori di MMA, tra i quali c’era il figlio di un personaggio in vista. Mentre stava finendo di scontare la sua pena, nonostante si proclamasse innocente, la sede della sua associazione, un cannabis social club, è stata perquisita: ora l’accusa, con condanna a 3 anni di reclusione, è delitto contro la sanità per detenzione di sostanze stupefacenti in quantità illegali, accusa sostenibile grazie alle pieghe di una legge fumosa e lacunosa che sta facendo discutere. «Il punto non è riconoscere l’innocenza o la colpevolezza dei detenuti» prosegue Katia Anedda. «Ciò che conta è che siano loro concessi i diritti più elementari, a partire dall’interprete fin dal momento in cui sono arrestati. Questo è proprio uno degli obiettivi della nostra associazione, perché non accada quello che è successo a Filippo e Luca: le loro conversazioni, intercettate, sono state tradotte ad arte per costruire una tesi a tavolino. E non c’è stato verso di smontarla».

Convenzioni che non vengono rispettate

La legge potrebbe fare molto, ma in tanti casi non viene applicata, come spiega Francesca Carnicelli, avvocata dell’associazione Prigionieri del silenzio. «Esistono trattati e convenzioni tra Stati che regolamentano queste situazioni. Per esempio la Convenzione di Strasburgo, in base alla quale la persona condannata può essere trasferita e scontare la pena nel Paese d’origine. È quello che si sta cercando di ottenere per Filippo e Luca, ma non è automatico. In molti Paesi la Convenzione non è conosciuta oppure si fatica a farla rispettare, a causa delle maglie della burocrazia in cui i processi finiscono impantanati».

Ci sono poi casi fuori dall’Europa ancora più complessi, come quello di Fulgencio Obiang Esono, ingegnere italiano originario della Guinea Equatoriale, arrestato nel 2019 durante un viaggio di lavoro in Togo e trasferito in un carcere della Guinea Equatoriale con l’accusa di colpo di Stato senza poter parlare con la famiglia per 4 anni, durante i quali non si avevano notizie neanche della sua esistenza in vita. «Neppure il console poteva vederlo. Ora si aspetta un cenno per potergli fare la prima telefonata. L’Italia ha aperto una procedura d’infrazione ma, più che la legge, in casi così pesa la diplomazia» spiega l’avvocata Carnicelli. Piccoli passi, in silenzio, lontano dai flash. A volte, i titoloni e il clamore creano più danni che vantaggi.

Quanti sono gli italiani in carcere all’estero

Il numero dei detenuti italiani all’estero varia in base al momento in cui si rileva: rappresenta cioè una fotografia in un certo giorno dell’anno. A dicembre del 2023 risultavano 2.185, secondo il ministero degli Esteri. Di questi, più del 35% è in attesa di estradizione o di giudizio, oltre l’80% è in un carcere europeo ma in condizioni disumane. La Germania è il Paese in cui ce ne sono di più: 1.079. Segue la Spagna con 458, il Belgio con 202, la Gran Bretagna con 192, gli Stati Uniti con 91. Gli altri sono in Sudamerica, Africa e Oceania. Le stime oscillano perché non tutti i Paesi segnalano la presenza dei detenuti, nonostante lo prevedano precisi accordi tra Stati. Spesso l’arresto non viene comunicato o il detenuto stesso non contatta il consolato, sia perché non è a conoscenza dei poteri di questa istituzione (la più giusta a cui rivolgersi in caso di problemi), sia perché teme (sbagliando) che in questo modo sporcherà la fedina penale in Italia. C’è poi chi ha la doppia cittadinanza: in questo caso non viene segnalato perché considerato un cittadino dello Stato in cui il reato si è verificato.

Chi è tornato a casa

Si è conclusa nel modo migliore la vicenda di Angelo Falcone e Simone Nobili, liberati nel maggio scorso dopo 3 anni di carcere in India, dal 2007 al 2010, prima condannati per detenzione di droga, poi dichiarati innocenti in appello. Nel 2015 Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, accusati di omicidio in India nel 2009, furono condannati all’ergastolo e poi assolti dalla Corte suprema. Le famiglie hanno venduto la casa per assisterli.