Già prima di iniziare ha fatto discutere l’incontro alle Olimpiadi di Parigi 2024 tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, combattimento valido per gli ottavi di finale della categoria 66 kg di pugilato. Il motivo? Lo scorso anno la nordafricana venne esclusa dai Mondiali per non aver superato il test ormonale, la cosiddetta “verifica del sesso“, a differenza di quanto accaduto in occasione dei Giochi francesi. E oggi dopo soli 46 secondi Angela Carini ha abbandonato il ring in lacrime dopo essere stata colpita duramente due volte dall’avversaria: «Non me la sono sentita più di combattare» ha dichiarato ai microfoni del Tg2 «Non sono nessuno per giuducare questo match, non sono un arbitro. Per me va bene così, sono salita sul ring per mio padre».

La questione dell’identità di genere alle Olimpiadi

La vicenda che vede protagonista l’algerina Imane Khelif alle Olimpiadi di Parigi riporta all’attenzione la questione dell’identità di genere degli atleti, rinnovando il dibattito che ormai da anni accompagna i criteri di ammissione e partecipazione alle gare ufficiali. E offrendo spunti di riflessione su come mantenere l’equilibrio tra inclusione ed equilibrio nelle competizioni. La prossima avversaria dell’azzurra Angela Carini era stata esclusa lo scorso anno dai Mondiali per non aver superato il test ormonale, la cosiddetta “verifica del sesso”‘, a differenza di quanto accaduto in occasione delle Olimpiadi francesi.

Imane Khelif
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I casi simili a quelli di Imane Khelif

Stessa situazione (e stesse polemiche) per Lin Yu-ting, rappresentante di Taiwan: privata dal podio ai Mondiali per non aver superato il test, l’atleta ha avuto il via libera per Parigi. Sta facendo discutere, poi, il caso di due calciatrici dello Zambia, Banda e Kundananji. Le due giocatrici, a causa degli alti livelli di testosterone, sono state escluse dalla Coppa d’Africa femminile 2022. Regolarmente in campo nel torneo in Francia, Banda e Kundananji si sono distinte per aver segnato rispettivamente, nell’arco di 56 minuti, tre e due reti nel match perso contro l’Australia. Riguardo la situazione di Banda in Coppa d’Africa, il presidente della federcalcio zambiana ha detto che nell’occasione “tutti i giocatori hanno dovuto sottoporsi al test di genere chiesto dalla federazione calcistica african, e sfortunatamente lei non ha soddisfatto i requisiti”. Secondo il Telegraph, però, Banda non si è mai sottoposta al test ed è stata esclusa dal torneo in via preventiva.

La battaglia di Caster Semenya

Restando al contesto olimpico, il nome che probabilmente salta subito alla memoria è quello della sudafricana Caster Semenya. Un caso complesso, che la porta sin da giovane a dover affrontare numerosi ostacoli sulla strada dell’idoneità sportiva. Due volte campionessa olimpica e tre volte campionessa mondiale negli 800 piani, Semenya ha combattuto a lungo con gli organismi sportivi per il riconoscimento dei suoi diritti. La velocista ha respinto l’etichetta di “intersessuale”, definendosi “un tipo diverso di donna”. Dopo il trionfo al Mondiale 2009, Semenya ha dovuto sostenere, su richiesta della Iaaf, un test di genere per poter essere ammessa alle competizioni l’anno dopo. Richiesta che ha scatenato polemiche nel mondo dello sport e in Sudafrica. Dopo l’introduzione, decisa dalla Federazione internazionale di atletica, di una nuova normativa che prevede che le atlete che superino il limite di 5 nanomoli di testosterone per litro di sangue debbano ridurre il valore del proprio testosterone, nel 2009 Semenya ha presentato ricorso al Tas, che tuttavia ha convalidato la regola. L’atleta si è rivolta dunque al Tribunale Federale Svizzero, che ha sospeso la norma, ma solo per un mese.

Livelli alti di testosterone

I livelli troppo alti di testosterone sono costati, per le regole della Federazione introdotte nel 2018, alle namibiane Christine Mboma e Beatrice Masilingi la partecipazione alla gara dei 400, la loro specialità, ai Giochi di Tokyo. Le due hanno ripiegato sui 200. All’inizio del 2021, Masilingi e Mboma sono state sottoposte a una valutazione medica durante la quale sono risultate positive a livelli elevati di testosterone. La causa è dovuta a una condizione genetica naturale, di cui entrambe le velociste non erano a conoscenza. Aminatou Seyni, del Niger, ha potuto prendere parte alla gara dei 200 femminili a Tokyo nonostante l’esclusione ai Mondiali di atletica del 2019 dovuta agli alti livelli di testosterone. Si ricorda, poi, il caso della mezzofondista keniana Margaret Nyairera Wambui, che ha gareggiato a Rio 2016 aggiudicandosi il bronzo. Tre anni dopo, è stato rivelato che Wambui è nata con una condizione di intersessualità. Dopo essersi rifiutata di assumere farmaci per abbassare il livello di testosterone, all’atleta è stato impedito di gareggiare ai Tokyo. Wambui poi ha proposto agli organismi sportivi l’introduzione di una categoria aperta agli atleti intersessuali.

Le conseguenze dell’iperandrogenismo

A Rio ha invece gareggiato Dute Chand, velocista e prima indiana a vincere l’oro nei 100 metri in una competizione mondiale. Chand, prima atleta indiana a dichiararsi membro della comunità LGBTQ+, a causa della suo iperandrogenismo e il conseguente elevato livello di testosterone è stata inizialmente sospesa dalla Federazione di atletica del suo Paese. Il divieto è stato, poi, revocato dopo il ricorso presentato dall’atleta, che peraltro ha offerto i servizi del suo team legale a Caster Semenya. La condizione di intersessualità di Francine Niyonsaba, del Burundi, argento a Rio negli 800, è stata rivelata dai test cui è stata sottoposta nel 2019. Nel judo da segnalare il caso della brasiliana Edinaci Silva, che ha rappresentato il suo Paese a quattro Olimpiadi consecutive, dal 1996 al 2008. Nata intersessuale, l’atleta è stata operata negli anni ’90 per poter competere nelle discipline femminili.

Il primo caso alle Olimpiadi negli anni ’30

Il primo caso di intersessualità alle Olimpiadi risalirebbe addirittura agli anni ’30: la polacco-americana Stanislawa Walasiewicz, specialista nei 100 metri, oro ad Atlanta 1932 e argento a Berlino 1936. La sua condizione di intersessualità, di cui lei era ignara, è stata scoperta dopo la sua morte. Il medico che ha eseguito l’autopsia ha dichiarato che Walasiewicz era “socialmente, culturalmente e legalmente” una donna, ma che il sesso era ambiguo dalla nascita.