Come si fa a diventare grandi dopo aver perso la mamma, uccisa da quello che si faceva chiamare papà? Come si fa a costruire il proprio futuro sulle macerie di un dolore che pesa sul cuore come un macigno, per tutta la vita?

Orfani di femminicidio: spesso invisibili allo Stato

La legge li chiama orfani speciali, forse perché, in una ipotetica scala del dolore, quello di aver perso la mamma, uccisa dal papà, è davvero speciale. Non lo è altrettanto l’attenzione che ricevono dallo Stato. Questi bambini, a volte appena maggiorenni, una volta rimasti soli vengono affidati ai servizi sociali, spesso alle case famiglia, quando possibile ai parenti della mamma scomparsa. Ci sono nonni che si ritrovano tre bambini piccolissimi, zii che hanno già due figli e si fanno carico dei nipotini, e così via, in una carrellata di casistiche svariate, ma con un unico comune denominatore: la noncuranza da parte delle istituzioni. 

Il Fondo per gli orfani di femminicidio

La legge che li tutela prevede un fondo speciale, troppo esiguo, come denuncia Giuseppe Delmonte, 48 anni, orfano di femminicidio, che ha appena fondato l’associazione Olga – Educare contro ogni forma di violenza. Olga come la sua mamma, uccisa il 26 luglio del 1997 a colpi d’ascia dall’ex marito. «Non voglio che altri bambini vivano quello che abbiamo passato io e i miei fratelli» spiega. «In quegli anni il fondo non c’era, ma comunque oggi non esiste un vero censimento degli orfani (le stime parlano di circa duemila tra bambini e ragazzi), quindi lo stanziamento dei soldi – 300 euro al mese – viene deciso senza avere idea della platea dei beneficiari. Inoltre non si accede al fondo in modo automatico: occorre fare domanda, senza contare che molte famiglie non ne sono a conoscenza, e spesso neanche i servizi sociali. Il sostegno inoltre arriva al terzo grado di giudizio, quindi fino a quel momento i caregiver devono arrangiarsi. In questa situazione, l’ultima cosa a cui si pensa è l’aiuto psicologico, che invece dovrebbe essere la prima forma di assistenza». 

La psicoterapia è importante per superare il dolore

Proprio per la sofferenza vissuta, Giuseppe, oggi strumentista di sala operatoria, ha deciso, ormai adulto, di iscriversi alla facoltà di Psicologia. «È stata la psicoterapia, iniziata a 42 anni per una depressione, a spingermi ad affrontare il mio passato e ad andare in carcere a trovare mio padre. Quell’incontro mi ha fortificato nella mia decisione di chiudere del tutto con lui, ma senza il sostegno del mio terapeuta, prima e dopo, non ci sarei mai riuscito. Quindi ho cercato gruppi Facebook di persone nella mia condizione e ho iniziato a intervenire a eventi pubblici. L’interesse e l’ascolto che ricevevo mi hanno spinto a condividere la mia storia nelle scuole e fondare l’associazione: un team di psicologi, avvocati e rappresentanti delle forze dell’ordine, pronti a fornire una rete di sostegno ai giovani. I ragazzi ci chiedono aiuto, ascolto, consigli. Spesso denunciano la violenza che vedono in casa. L’associazione è nata soprattutto per loro».

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