«Ho un annuncio importante da fare. Non parteciperò alle Paralimpiadi». A due settimane dai Giochi Paralimpici, in corso a Parigi fino all’8 settembre, compariva questa scritta sul profilo Instagram di Bebe Vio e di una lunghissima serie di atleti già qualificati, italiani e non. Scorrendo, una serie di immagini e, per ultima, la frase: «Io sarò lì per competere».

Paralimpiadi: obiettivo vincere, non partecipare

Nessuna defezione, quindi, ma una dichiarazione di intenti lanciata dal Comitato Paralimpico Internazionale per spazzare via un pregiudizio mai del tutto archiviato: che la disabilità tolga qualcosa allo sport, depurandolo dall’ambizione, dal valore della performance e dalla bellezza del gesto atletico. Dice Craig Spence, capo della comunicazione del Comitato, che quando i media nominano gli atleti paralimpici usano sempre la parola “partecipanti”. Invece ai Giochi ci vanno per vincere. Tutti. Perché, spiega Marcella Bounous, psicologa dello sport e consulente del Coni, dal punto di vista mentale non c’è nessuna differenza: «Nello sport paralimpico esiste una sensibilità maggiore che nasce dall’aver vissuto delle difficoltà, sì, ma il bisogno di competere, la cattiveria agonistica, la luce negli occhi dopo la vittoria sono gli stessi».

Disabilità, non handicap!

Quanto contino le parole lo spiega bene Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. «Ai tempi in cui ero atleta, negli anni ’80 e ’90, ci chiamavano Federazione Italiana Sport Handicappati. Nel 2000, quando sono diventato presidente, abbiamo sostituito la parola “handicappati” con “disabili”. Io però già allora usavo il termine paralimpico, che permetteva di eliminare i riferimenti al corpo – non più atleta in carrozzina o atleta cieco – e di definire qualsiasi persona con disabilità che pratica sport». Per descrivere la rivoluzione, oltre alle parole giuste, servono anche  i numeri. Quelli degli atleti in gara ai Giochi, per esempio: nel 1960 a Roma erano 400, quest’anno a Parigi saranno 4.000 in più, divisi in 549 eventi e 22 sport. Gli italiani saranno 141: 70 donne e 71 uomini, con un’età media di 33,5 anni, impegnati in 17 discipline.

La crescita del movimento delle Paralimpiadi

Una lunga marcia che, secondo Pancalli, ha avuto due tappe fondamentali: Seoul 1988, quando si decise che Giochi Olimpici e Paralimpici si sarebbero tenuti nella stessa città, e Londra 2012, con la prima copertura televisiva globale. «La Rai aveva garantito 14 ore al giorno di diretta: tutti hanno visto Alex Zanardi che alzava la sua handbike». In quell’immagine, dice, c’era la reazione di un movimento che cercava a fatica di uscire dall’ombra. «Quando vincevo  nel nuoto leggevo cose del tipo “l’eroe sfortunato” o “l’Olimpiade del cuore e del coraggio”. Oggi nel racconto dei media ci si sofferma sul valore sportivo, e questo fa parte del processo di crescita. Ma le storie devono continuare a essere raccontate.

Tanti campioni, tante storie

Ambra Sabatini che perde una gamba in un incidente e dopo 2 anni vince un oro alle Paralimpiadi di Tokyo è un messaggio potentissimo per ragazzi che vivono delle difficoltà».

Martina Caironi, Monica Contraffatto, Ambra Sabatini (100 metri)
Martina Caironi, Monica Contraffatto, Ambra Sabatini: la storica vittoria nei 100 metri a Tokyo 2020

La cultura di un Paese, sostiene, si cambia così: attraverso l’esplosività di Bebe Vio, i record di Ambra Sabatini, le cicatrici di Veronica Yoko Plebani. Ma non solo. Lo sport paralimpico è fatto di tante storie unite da un comune denominatore: la dimostrazione che il corpo, anche ferito o fragile, ha poteri inaspettati a cui attingere. E che nulla sa attivarli quanto una palestra, una piscina, un campo di gara.

Luca Pancalli, ex campione di nuoto e oggi presidente del Comitato Italiano Paralimpico

Francesca Tarantello, classe 2002, tra le migliori triatlete in gara a Parigi, quei poteri all’inizio li ha trovati negando la sua disabilità. «Sono nata con problemi visivi molto forti che nessuna lente riesce a correggere. Io però volevo essere come gli altri: ho cercato di nascondere la mia disabilità rifiutando gli insegnanti di sostegno, facendo sport con i normo. Fino ai 16 anni ho nuotato, poi ho cominciato con il triathlon, anche lì con i normo. Ma la mia disabilità pesava di più, soprattutto in bici. Andavo sul campo di gara tre giorni prima per imparare a memoria il percorso, sperando che andasse tutto bene. Poi ho capito che era un rischio assurdo. Alla fine, ho superato la vergogna e accettato di partecipare a un raduno di triathlon paralimpico». Una decisione che le cambia la vita. «Ho trovato un mondo migliore, persone che non si lamentavano delle difficoltà. La cosa più difficile? Imparare a gareggiare con una guida: affidarmi a un’altra persona, per me che ho sempre voluto far tutto da sola, è stata una grande conquista. Mi ha insegnato a chiedere aiuto e che, in due, si possono fare cose migliori».

Giada Rossi

Giada Rossi

Giada Rossi, 30 anni, campionessa europea di tennistavolo, è alla sua terza Paralimpiade. Per lei lo sport paralimpico è stata la strada, non scritta, per ritrovare se stessa. «Nel 2008 un banale tuffo nella piscina di casa mi ha provocato l’esplosione di una vertebra cervicale. Avevo 14 anni ed ero un’atleta:  proprio quel giorno avevo ricevuto la convocazione nella selezione regionale di pallavolo, invece mi sono ritrovata tetraplegica». Lo sport rientra nella sua vita «nel 2011, quando è diventata prof di educazione fisica della mia classe Marinella Ambrosio, che era presidente del Comitato paralimpico del Friuli-Venezia Giulia. Fino a quel momento, mentre gli altri facevano ginnastica, io recuperavo ore di altre materie. Lei mi ha riportata in palestra e mi ha suggerito di giocare a tennistavolo. Ritrovare l’agonismo è stata una molla importante. Sono entrata nei gruppi sportivi dell’Esercito e oggi vivo di sport, realizzando il sogno che avevo da bambina».   

Eleonora Sarti

Eleonora Sarti

Anche Eleonora Sarti, 38 anni, campionessa di tiro con l’arco, sognava in grande. «Un infarto midollare mi ha costretta in carrozzina a 9 anni. Mia madre, per non farmi rendere conto della mia disabilità, mi ha buttata in mille sport. Dei miei limiti ho preso atto solo più avanti: da adolescente ho cominciato a vergognarmi, stavo sempre chiusa in casa, coperta anche d’estate. Finché sono venuta a fare l’università a Bologna e ho scoperto il basket in carrozzina». Di lì, inizia a sognare le Paralimpiadi. «La Nazionale di basket non era abbastanza competitiva per andare ai Giochi e la mia fisioterapista mi suggerì di provare il tiro con l’arco. Dal 2013 al 2015 ho vinto quasi tutte le gare e mi sono qualificata per Rio 2016». Scopre che il tiro con l’arco è la sola disciplina in cui atleti normo e con disabilità possono competere insieme. «Entrare nella Nazionale normo, a quel punto, è diventato il mio obiettivo. Farcela è stata una soddisfazione, ho vinto medaglie mondiali ed europee, oggi sono terza nel ranking nazionale. Per me in gara non ci sono differenze. Quando giocavo a basket, non vedevo le carrozzine: vedevo persone correre. Lo stesso ora. Io tiro su uno sgabello, ma per me quello sgabello non esiste. E non esistono le carrozzine dei miei avversari».

Dove seguirli in tv

I Giochi Paralimpici di Parigi 2024 segnano un record: sono trasmessi in oltre 160 Paesi, con la copertura in diretta di tutte le 22 discipline presenti. In Italia si possono vedere su Rai 2 HD e su Rai Play. Non solo. Su Rai 2 ogni mattina dalle 8.45 alle 9.15, fino all’8 settembre, va in onda Stravinco per la vita – Paralimpiadi, spin-off di O anche NO, lo storico programma sui temi della disabilità, dei diritti e dell’inclusione sociale ideato e condotto da Paola Severini Melograni. In ogni puntata, il racconto delle gare, le interviste agli atleti da Parigi, gli approfondimenti con gli ospiti in studio. Obiettivo: raccontare lo sport paralimpico senza retorica.