L’Italia ha il primato in Europa quanto a suicidi tra gli anziani. Nel 38% dei casi riguardano persone con più di 65 anni, sebbene queste ultime siano poco più del 20% della popolazione. Ma soprattutto si tratta di numeri doppi rispetto a quelli medi dei Paesi anglosassoni. «Oltre all’ageismo, nei paesi occidentali abbiamo il 30% degli anziani afflitti da solitudine cronica e il 10% da una forma molto severa, che porta alla depressione e poi in alcuni casi proprio al suicidio», sottolinea Diego De Leo, Presidente Associazione italiana di psicogeriatria (AIP).

In Italia 1.400 suicidi di anziani nel 2020

La preoccupazione è doppia: da un lato aumenta l’età media della popolazione, che rende l’Italia un Paese anziano; dall’altra le condizioni degli over 65 che non sembrano affatto ottimali e che fanno parlare gli esperti di Paese né per giovani, né per anziani. «La situazione è drammatica: occorre intervenire. Gli anziani rappresentano il 24% della popolazione, ma il 38% dei suicidi complessivi riguarda proprio persone over 65: non è ammissibile che nel 2020 si siano tolti la vita in 1.400», sottolinea De Leo.

Le famiglie che cambiano e la solitudine che aumenta

«La società è profondamente cambiata: le famiglie, come erano intese anni fa, sono implose, sono aumentate quelle mononucleari ed è aumentata la lontananza dai genitori. Questi vivono spesso in un luogo diverso da quello dei figli, che stanno diminuendo a causa del calo della natalità – prosegue lo psicogeriatra – Gli anziani di oggi, i nati prima della Seconda Guerra mondiale, tra gli anni ‘30 e ’40, vivevano una realtà fondamentalmente patriarcale, circondati dai figli e nipoti, ma anche da fratelli e sorelle. È quindi venuta meno l’assistenza naturale che in passato era garantita agli anziani».

I nostri anziani più soli di quelli europei

Non a caso l’elevato tasso di suicidi tra gli anziani in Italia è motivato soprattutto dalla solitudine e dall’ageismo con cui vengono discriminati. Nel primo caso basti ricordare che il tasso di solitudine è il doppio rispetto alla media dei Paesi europei. Il 14% dei nostri “silver” non ha nessuno a cui chiedere aiuto, il 12% non ha persone con cui confidarsi o parlare, mentre la media europea si ferma al 6,1% (dati Eurostat). Le ricadute sono psicologiche e anche economiche, con un aumento dei casi di depressione, disturbi del sonno, demenza e malattie cardiovascolari.

L’ageismo che porta a discriminazione (anche sanitaria)

Quanto all’ageismo, «Gli anziani spesso vengono estromessi da misure di salvaguardia sanitaria, come avvenuto durante la pandemia, quando i posti in terapia intensiva erano destinati ai più giovani – spiega De Leo – Gli stessi anziani si sono convinti di non poter essere utili alla società né attivi: spesso però l’impoverimento cognitivo in queste persone non è reale, ma frutto di un’idea sociale. Occorre ribaltare questo modello». Ma in che modo? «Sicuramente ridando loro valore che non sia solo quello economico per la loro pensione. Occorre valorizzarne l’esperienza e il ruolo nella società. Senza considerare che, se arrivano a un gesto drammatico come il suicidio, lanciano anche un messaggio negativo ai giovani».

Le novità nelle cure per le demenze

Come emerso dal 24° Congresso dell’AIP, appena concluso a Firenze, l’intelligenza artificiale e la ricerca di nuove cure potranno avere un impatto positivo, soprattutto sul fronte dei trattamenti per le demenze, che rappresentano uno dei maggiori problemi legati all’età avanzata. In particolare, nella diagnosi uno degli strumenti più innovativi è rappresentato dai biomarcatori. «Già adesso possiamo rintracciare nel sangue elementi che permettano di individuare una elevata probabilità di futura malattia. Ma occorre anche una valutazione etica e una clinica adeguata: sapere di poter andare incontro all’Alzheimer nei futuri 10 o 20 anni, cosa comporta in una persona? Come vivrà con questo macigno, con che accorgimenti? – si chiede De Leo – Il problema è che non abbiamo ancora cure specifiche per ridurre il rischio di malattia né presidi efficaci quando questa è in atto».

Le novità farmacologiche

Alcune novità farmacologiche, invece, riguardano problematiche come il controllo di agitazione e delirium, e quelle sui trapianti d’organo. «Abbiamo molte speranze nei confronti di trattamenti biologici, a base di anticorpi, cioè sostanze che potrebbero alleviare, rimandare o contenere i sintomi di malattia. Funzionano attaccando la betamiloide, una proteina dall’azione di disgregazione cellulare che si accumula creando placche. Questi farmaci potrebbero attaccarla e dissolverla, stanno per apparire sul mercato. Ma non dobbiamo limitarci a questo, occorrono più ricerca e più attenzione agli stili di vita», spiega lo psicogeriatra.

L’importanza dello stile di vita

«Le ricerche ci dicono che probabilmente la demenza è costituita da componenti diverse, forse occorrerà intervenire anche con cocktail farmaceutici, come quelli che contrastano la neuroinfiammazione. Siamo ancora di fronte a “nemico molto robusto”: ci sono novità all’orizzonte, che appaiono più vicine rispetto al passato. In parte, infatti, il nemico è già abbattuto: lo dimostra la diminuzione di casi di demenze grazie a stili di vita corretti, come una maggiore attività fisica e una corretta alimentazione. Si tratta, quindi, di presidi non farmaceutici che sono stati capaci di allentare il morso della malattia, che non è andato di pari passo con l’invecchiamento della popolazione», sottolinea De Leo.

La legge sull’autosufficienza serve?

Secondo gli psicogeriatri la recente approvazione della legge 33 sulla non-autosufficienza rappresenta un’altra opportunità nell’assistenza. «Il problema non è solo italiano, ma riguarda altri paesi come il Giappone, il più vecchio al mondo insieme al nostro. Lì hanno stimato 45mila persone che ogni anno muoiono in completo isolamento, tanto che sono state create squadre di “death cleaners” che si occupano di bonificare i luoghi in cui sono avvenute queste morti in solitudine». «In Italia – prosegue l’esperto – la legge non è ancora operativa, mancano i criteri attuativi, ma soprattutto servono finanziamenti. Oggi i fondi non sono sufficienti al fabbisogno e ci sono persone anche più giovani degli ultra85enni che hanno bisogno di assistenza», conferma l’esperto.

Cosa c’entra il clima

Infine, non vanno trascurate le conseguenze dei cambiamenti climatici che possono incidere sulla salute dei più fragili: ad esempio, possono soffrire maggiormente gli effetti della disidratazione, dei colpi di calore. «La termoregolazione degli anziani non è la stessa dei giovani: caldo, freddo, umidità sono insidie che gravano su di loro. Ma possono anche essere semplicemente essere meno reattivi di fronte a calamità naturali per limiti nelle capacità sensoriali o nell’uso dei dispositivi di allerta digitale: il 65% della popolazione anziana non è in grado di maneggiarli e molti non sono capaci di inviare una email», sottolinea il presidente AIP, ricordando l’importanza della giusta attenzione a questa fetta di popolazione.