Ci sono storie che non vorremmo mai raccontare, e storie che invece dobbiamo raccontare. Come quella di una persona di 21 anni (o forse 22?) di cui si sa poco, ma quello che si sa è sufficiente. E fa molto male. Fa male perché questa giovane persona si è suicidata dopo avere subito violenza in un pronto soccorso (è accaduto a Melegnano, in provincia di Milano), dov’era andata per un’altra violenza, quella di tutti giorni, a casa. Ma fa ancora più male perché questa vittima non era una ragazza, ma un ragazzo. Almeno, lui si sentiva così e, come raccontano persone a lui vicine, aveva iniziato il percorso di affermazione di genere. E questo avrebbe dovuto bastarci: per non fare titoli sbagliati, per raccontare la verità e restituire una dignità a questa persona, almeno da morta.
Più di cinque anni per cambiare i documenti
Un percorso, quello dell’affermazione di genere, che in Italia è particolarmente in salita: possono volerci anche più di cinque anni per riuscire ad avere la sentenza del giudice con cui poter cambiare i documenti. Per questo tutti abbiamo letto e catalogato la sua storia come una vicenda al femminile, una delle tante (purtroppo) storie di violenza sessuale. Invece no.
Una tripla violenza per chi è transgender
In questa storia c’è una doppia, anzi tripla violenza. La prima: non essere visto per come ti senti, cioè un uomo. La seconda: la violenza al pronto soccorso. La terza: non essere accettato dalla famiglia (infatti questa persona aveva chiesto di non tornare a casa). Non tutte le famiglie accolgono il coming out della propria figlia o figlio. C’è chi rifiuta, chi non ha gli strumenti culturali e personali per accogliere senza giudizio, chi si vergogna. Antonia Monopoli, persona transgender, una lunga storia di attivismo alle spalle, è responsabile di uno sportello che a Milano aiuta e sostiene le persone transgender (sportello Trans di Ala Milano onlus). «Un utente dello sportello mi aveva segnalato questo ragazzo in via di definizione, ancora all’inizio del suo percorso: non aveva cominciato infatti la terapia ormonale e molto probabilmente non riusciva neanche a spiegarsi. Perché c’è chi ci riesce e chi no. Siamo su un terreno molto scivoloso, dove l’identità che urla dentro fa a pugni con quello che appare fuori. Sappiamo che prendeva psicofarmaci e che per questo era stato allontanato dal lavoro. Poi i maltrattamenti a casa, psicologici e fisici, hanno contribuito a rendere ancora più fragile un equilibrio già compromesso. Infine la violenza al pronto soccorso, dov’era andato proprio per fuggire dalla famiglia, dove non voleva più tornare».
I suicidi tra le persone transgender
Purtroppo i suicidi sono frequenti tra le persone transgender, soprattutto in adolescenza. «Dati ufficiali non ne esistono, ma gli studi concordano sul fatto che il rischio è di 10 volte più alto, a causa di depressione, bullismo, cyber bullismo e discriminazioni» dice Antonia Monopoli, autrice anche di un libro sulla sua storia di affermazione di genere: La forza di Antonia, che racconta la crescita tra tabù, discriminazione, depressione e prostituzione, di quella “bambina imprigionata nel cuore di un bambino”. «Se è vero che quel ragazzo non è stato capace di spiegarsi al momento di entrare in ospedale, è vero anche che i sanitari non sono stati capaci di cogliere le sue condizioni».
Antonia Monopoli alla guida del corteo TDOR (Trans day of remembrance) il 20 novembre 2022 a Milano, la data scelta dalla comunità LGBT per commemorare le vittime dell’odio e del pregiudizio verso le persone transgender (transfobia) (courtesy Agedo Milano)
Non esiste il “ricovero sociale”
Tutti noi ci siamo anche chiesti come mai una persona vittima di violenza venga riportata nel luogo dove l’ha subita, cioè l’ospedale. Alessandra Kustermann, ginecologa di fama e presidente dell’associazione SVS Donna Aiuta Donna, fondatrice del primo centro antiviolenza pubblico per donne vittime di violenza sessuale e domestica, spiega che la procedura invece è corretta. «Il ragazzo era già stato visto dallo psichiatra ed è arrivato in ospedale per problemi col padre. La violenza subita in pronto soccorso e accertata alla Mangiagalli non dà potere di trattenere la persona, che va invece rinviata all’ospedale che l’ha presa in carico. In genere non si ricovera una persona per violenza sessuale, e comunque la decisione spetta all’ospedale di riferimento, non alla struttura che fa il consulto. Non esiste il ricovero “sociale”, com’è stato scritto. Esistono dei ricoveri in cui si può inserire la dizione “violenza sessuale” oppure “maltrattamento fisico o psicologico”, anzi: le linee guida nazionali del 2018 impongono di identificare qualsiasi lesione compatibile con la violenza, in modo da poter censire il fenomeno. Nulla di strano quindi se il ragazzo era stato ricoverato in ginecologia».
La rete antiviolenza di notte non si può attivare
A giocare contro, in questa partita così ingarbugliata, è stato il momento in cui tutto è accaduto. L’accesso al pronto soccorso avviene la sera tardi, la violenza all’alba, la denuncia subito dopo, poi l’invio alla Mangiagalli e infine il rientro in serata all’ospedale di Melegnano: «Alla sera non si può attivare la rete dei centri antiviolenza» spiega la dottoressa Kustermann. «Se il fatto accade di notte, è normale restare al pronto soccorso se non si vuole tornare a casa. In casi così delicati, comunque, non possiamo sapere se il ragazzo si sarebbe salvato. Noi sanitari abbiamo a malapena mezz’ora per farci un’idea della situazione, molte volte non è possibile capirne la gravità. In questo caso poi non c’erano denunce pregresse. Il suicidio è davvero un evento molte volte imprevedibile, in 50 anni di attività purtroppo ne ho visti parecchi tra le persone transgender e le donne vittime di violenza».
La strada in salita per l’affermazione di genere delle persone transgender
Anche Alexein ha tentato il suicidio in adolescenza ed è stato ricoverato in ospedale, più volte. E più volte curato per la depressione. Con lui la sua mamma, Andrea Pigey, che gli è stata accanto durante gli anni difficili dell’affermazione di genere, in cui il figlio cercava la sua identità. «Prima, a 15 anni e mezzo, mi ha detto che si sentiva lesbica, poi non binario, poi transgender. Io gli ho sempre risposto che l’avrei aiutato e supportato, in ogni caso. Da lì è iniziato tutto: il coming out in famiglia e con gli amici, poi la scelta del nome d’elezione e quella di vestirsi in modo coerente, quindi la terapia psicologica con un professionista esperto e poi quella ormonale, che viene seguita da un endocrinologo. E intanto passano anni. Una volta iniziata la cura ormonale, si rilascia una relazione degli specialisti e poi con l’aiuto di un legale, si deposita in tribunale». La strada per il cambio del nome però è lunga. Può durare fino a cinque anni in Italia, in alcune regioni anche di più. «Durante il percorso di affermazione, l’identità anagrafica è quella dei documenti alla nascita, quindi negli ospedali, a scuola, negli uffici pubblici, si appare sempre come non si vuole apparire. Al ragazzo che si è suicidato è accaduta la stessa cosa: è stato registrato al pronto soccorso come donna, per questo tutti i giornali hanno parlato di una donna» spiega Andrea Pigey. «In Spagna e in altri paesi non è così. Siamo stati proprio in Spagna per effettuare l’intervento di mascolinizzazione del petto e in cartella clinica mio figlio risultava come si era dichiarato: Alexein, nonostante i documenti al femminile».
Cambiare i documenti vuol dire tornare a vivere
La burocrazia italiana ovviamente non aiuta, anzi rema contro.«Dopo la sentenza, a cui si arriva dopo almeno tre anni di terapie, occorre ancora un mese, e poi altri 45 giorni per notificare i dati all’Inps e all’anagrafe, dopodiché si possono richiedere i documenti. Alex vuole cambiare anche il diploma delle scuole superiori». Cambiare i documenti non è uno sfizio, come parte della politica va sbandierando per denigrare e sottodimensionare i diritti delle persone transgender. Basterebbe solo pensare al carico di tempo, energie e soldi che tutto ciò comporta. Certo ai soldi una famiglia in una situazione del genere, non può guardare. «I tempi di attesa per le strutture pubbliche sono troppo lunghi, per questo si devono scegliere medici privati. Per non parlare degli interventi, dei soggiorni all’estero, dei permessi da chiedere al lavoro». Un carico importante, che scompare però di fronte alla serenità di un figlio. Ora Alex frequenta l’università e Andrea è un’attivista dell’associazione Agedo Milano che, con 37 sedi in tutta Italia, presta ascolto e supporto ai genitori nel coming out dei figli e delle figlie LGBTQIA+, promuovendo il pieno riconoscimento dei diritti civili e i necessari cambiamenti sociali nel nostro Paese.