Chi aiuta a morire una persona malata e senza prospettiva di guarigione non andrebbe punito. A chiederlo è stata la Giudice per le indagini preliminari Agnese De Girolamo, che di fatto torna ad affrontare il tema delicatissimo del fine vita e del suicidio assistito a 7 anni dal caso Dj Fabo-Cappato.

Si torna a parlare di fine vita e suicidio assistito

Si tratta di un argomento che divide, come dimostra il recente stop a una proposta di legge regionale in Veneto, che aveva come scopo di definire un iter chiaro per i malati chiedono che di accedere al suicidio assistito, «perché i malati quel tempo non lo hanno: per loro l’attesa del fine vita è un tempo di grande sofferenza. Adesso, intanto, la Consulta dovrà intervenire per la terza volta sul cosiddetto “suicidio assistito”», spiega Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni.

L’aiuto al suicidio assistito va punito?

La giudice De Girolamo è intervenuta su un preciso aspetto della sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio assistito, applicato al caso di Massimiliano, un 44enne toscano di San Vincenzo, in provincia di Livorno, affetto da sclerosi multipla. L’uomo è stato portato in Svizzera per procedere con il suicidio medicalmente assistito, accompagnato da Felicetta Maltese e Chiara Lalli, poi autodenunciatesi presso la stazione dei Carabinieri di Firenze, insieme a Marco Cappato in qualità di rappresentante legale dell’Associazione Soccorso Civile, che ha reso possibile (anche finanziariamente) il trasferimento di Massimiliano in una clinica svizzera.

Il nodo dei trattamenti vitali

L’attenzione adesso è posta sulla non punibilità di chi agevola il suicidio assistito, legata alla condizione dell’essere “tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Sarebbe in contrasto, infatti, con la Costituzione (art. 2, 3, 13, 32, 117). «La giudice ha posto il dubbio sulla costituzionalità del solo requisito del trattamento vitale, che è uno dei 4 previsti della 242 per l’accesso al suicidio assistito. Massimiliano, infatti, aveva gli altri tre: era un malato con una patologia irreversibile e che determinava sofferenza intollerabile. Era pienamente capace di autodeterminarsi, tanto che aveva rifiutato terapie che riteneva l’avrebbero solo stordito senza modificare lo stato della sua malattia. Mancava, però, la condizione che fosse sottoposto a trattamenti di sostegno vitale intesi come dipendenza da macchinari come fu per Fabiano Antoniani (Dj Fabo, Ndr)», spiega Gallo.

Cosa ha chiesto la giudice

Senza un intervento sulla illegittimità di questo requisito, quindi, Cappato, Lalli e Maltese sarebbero rinviati a giudizio e in caso di condanna rischierebbero da 5 a 12 anni di carcere. «La giudice non ha ritenuto che Massimiliano non sia stato istigato al suicidio, ma che abbia solo ricevuto un aiuto, mentre l’articolo 580 prevede che il capo di imputazione sia unico, di istigazione e aiuto al suicidio – prosegue Gallo – Quindi ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi solo sull’aspetto dei trattamenti di sostegno vitale, che sono un punto molto importante perché introducono discriminazioni tra i malati che desiderano porre fine alla loro vita in seguito a gravi patologie irreversibili, e che non sono dipendenti da macchinari come lo era Fabo».

Discriminazioni tra malati irreversibili

«I giudici ora dovranno stabilire se il requisito dei trattamenti vitali sia un requisito necessario e come deve essere interpretato, oppure se può essere un requisito eventuale o non necessario. A differenza di Fabo, infatti, Massimiliano non dipendeva dai macchinari, ma pur sempre dall’aiuto e dal sostegno dei suoi cari, per mangiare o andare in bagno. Senza di loro non avrebbe potuto nutrirsi e sarebbe comunque morto con una enorme sofferenza. La Consulta dovrà stabilire, quindi, cosa si intenda per trattamento di sostegno vitale, se comprenda anche farmaci o assistenza da parte di terzi», spiega la segretaria dell’Associazione Coscioni.

Il Parlamento non ha ancora votato una legge

Di fatto il Parlamento non ha ancora emanato una legge, nonostante fosse stato chiamato a farlo nel 2019: «L’unica volta che ha provato, ha dimostrato non essere in grado. Il testo (di Alfredo Bazoli), che poi a causa dello scioglimento delle Camere non è stato votato al Senato, introduceva altri ostacoli: per esempio, la sofferenza psicologica diveniva requisito necessario e non alternativo a quella fisica, come previsto dalla Consulta. Era anche previsto un passaggio obbligatorio dal percorso palliativo, per poi eventualmente sospenderle e procedere con il suicidio assistito. Ma questo avrebbe significato nuove condizioni e ulteriore tempo e i malati in condizioni irreversibili questo tempo non lo hanno: perché allungare ulteriormente la loro sofferenza se chiedono di porvi fine?», chiede Gallo.

Non allungare il tempo della sofferenza

«Una legge – prosegue Gallo – deve invece eliminare discriminazioni tra persone malate che vogliono scegliere diverse forme di fine vita. Immaginiamo anche una persona che non ha il requisito del sostegno vitale oppure che, pur avendo tutte le condizioni previste dalla Consulta, non può autosomministrarsi il farmaco letale e avrebbe bisogno che qualcuno lo faccia: questo è vietato perché si configura il reato di omicidio del consenziente. Una legge completa, invece, garantisce chi vuole effettuare determinate scelte e chi non le vorrà mai fare, perché nessuno potrà imporre nulla. Perché per il legislatore non possiamo scegliere sulle nostre vite?», chiede Gallo.

I casi di Elena, Romano, Margherita e Paola, che aspettano

«Il compito dei giudici è molto importante, come dimostrano anche altri casi analoghi a quello di Massimiliano. Si tratta, per esempio, di Elena, Romani, Margherita e Paola, che sono state sono stati aiutati da Marco Cappato e altri “disobbedienti”. Su questi ci sono ancora in corso procedimenti presso le Procure di Bologna e Milano. Il nodo resta la questione del requisito del sostegno vitale. Se interpretato in senso stretto, non prevede l’accesso al suicidio assistito. Ma questo di fatto rappresenta una discriminazione tra malati», insiste la segretaria dell’Associazione Luca Coscioni.

Il Veneto e la bocciatura della legge sul fine vita

Intanto, a favore di una proposta di legge regionale sul fine vita si era espresso il presidente del Veneto Luca Zaia, ma a fermarne l’approvazione è stato il no di Fratelli d’Italia e Forza Italia, grazie anche a un’astensione del Pd. In caso fosse passata la legge, il Veneto sarebbe stata la prima Regione a dotarsi di una normativa in materia di tempi di risposta alle persone malate: si prevedeva un termine massimo di 20 giorni alle Asl per effettuare verifiche sulla condizione della persona e nel dare una risposta ai malati con patologie irreversibili, che chiedono di accedere al suicidio assistito. L’obiettivo è evitare lungaggini burocratiche e rimpalli di responsabilità per la verifica delle condizioni. «Occorrono tempi certi. I malati non possono aspettare mesi o anni. La legge è tornata in Commissione, nel frattempo abbiamo chiesto che la Giunta proceda, magari con una delibera, nella stessa direzione», conclude Gallo.