La violenza economica è un abuso subdolo, spesso mascherato da premura, ancora saldamente incuneato nelle consuetudini sociali: tra le tante forme in cui si manifesta la violenza di genere, quella economica è la più difficile da identificare.

Violenza economica: cos’è

La Convenzione di Istanbul, il quadro normativo che l’Unione europea s’è data per prevenire e combattere la violenza contro le donne, l’accosta alle più riconosciute: violenza fisica, sessuale e psicologica. Anche questa è una forma di controllo sulle donne, esercitata in famiglia o all’interno della coppia, che si perpetua pure dopo separazioni e divorzi e usa la superiorità economica per alimentare nelle vittime una condizione di dipendenza, isolamento, insicurezza. Può palesarsi attraverso l’impedimento a possedere risparmi o un conto corrente personali, a conoscere l’ammontare del reddito familiare o a svolgere un lavoro; o tramite il controllo ossessivo delle spese, la confisca del denaro e di altri dispositivi di pagamento.

La violenza economica non lascia segni visibili

Una donna su 3 dipende economicamente dal partner o da un familiare e solo il 58% possiede un conto corrente proprio, secondo uno recente studio. «Se la scia traumatica di aggressioni fisiche e sessuali sono tentativi di suicidio e gravi disturbi cronici, nel 77% delle vittime di abuso economico è la salute mentale a rimetterci» spiega Claudia Segre, presidente e fondatrice di Global Thinking Foundation, che con Roba da Donne ha promosso la ricerca e che da anni sostiene l’indipendenza finanziaria come prevenzione e tutela contro la violenza economica. Oltre a minacciarne la libertà, questa condizione di instabilità compromette l’equilibrio di chi la subisce. «Le ultime sentenze stimano che abusi economici e psicologici, insieme, producano lo stesso impatto nocivo sulle vittime di quelli fisici e sessuali, alimentando i costi sociali della violenza sulle donne, che per l’Italia ammontano a 39 miliardi di euro l’anno» sottolinea Segre, che è anche co-chair del Women7 Italia 2024, il gruppo di impegno civile ufficiale del vertice G7.

I numeri della violenza economica

Scarsamente tracciabile, anche perché non esiste una definizione condivisa nei vari ordinamenti statali, la violenza economica espone le donne ad abusi più gravi: non poter disporre di risorse proprie rende ancora più difficile la separazione da un partner violento. Da un’audizione Istat presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere del gennaio scorso, si evince che circa il 60% delle utenti dei centri antiviolenza non è economicamente autonoma e più del 40% ha subito anche abusi finanziari. Secondo i report del numero antiviolenza 1522, a segnalare violenze economiche è il 19,7% delle donne: tra le più esposte, casalinghe (41%), lavoratrici in nero (32,9) e disoccupate (30,6), mentre la percentuale scende al 15,9 tra le occupate. Quest’ultimo dato ci dice che l’occupazione femminile, che in Italia si attesta intorno a un misero 55%, è un presidio importante, ma non sufficiente.

Delegare a lui la gestione dei soldi non va bene

A rendere l’abuso finanziario un fenomeno trasversale alla professione, al censo, al grado d’istruzione e alla comunità di appartenenza è il pervicace radicamento di stereotipi che alimentano l’idea che le donne siano incapaci o poco interessate a gestire le questioni finanziarie. «Un tempo delegare la gestione dei soldi al coniuge era indice di fiducia» continua Segre. «Ma a salvaguardarci sono l’autonomia finanziaria e la trasparenza patrimoniale. Per ragioni culturali molte sottovalutano i sintomi di un atteggiamento coercitivo, di controllo: abbiamo incontrato vedove che hanno ereditato situazioni debitorie dai mariti, donne che hanno affiancato i consorti nella carriera senza mai un contributo pagato. Ci battiamo per far capire che fare domande e condividere le scelte finanziarie della famiglia è un arricchimento, non una forma di sfiducia». La Global Thinking Foundation dal 2017 gestisce una piattaforma ibrida per l’autoapprendimento e ha istituito l’esperienza di Donne al quadrato, con oltre 10.000 partecipanti e moduli che vanno dall’educazione finanziaria di base a quella più avanzata. Iniziative come queste puntano a sensibilizzare sull’importanza di una pianificazione lungimirante. «Viviamo mediamente più dei maschi, ma il rischio è di sopravvivere in povertà: se si sommano i differenziali di genere che ogni donna accumula, da quelli salariali e previdenziali alle opportunità di carriera, le lavoratrici raggiungono una pensione mediamente più bassa del 35%» avverte Claudia Segre.

In Italia la violenza economica non è riconosciuta come reato

In Italia la violenza economica non è riconosciuta come reato. «Per questo è cruciale l’entrata in vigore, dall’ottobre scorso, della Convenzione di Istanbul, che mette i Paesi membri in condizione di assimilarne le norme nei propri ordinamenti» sostiene Segre. «Insieme alla Convenzione 190 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, cita e riconosce le stesse quattro forme di violenza: fisica, sessuale, psicologica ed economica. Questo apparato normativo internazionale è un’utile roadmap per implementare il lavoro avviato con il Codice rosso, la legge che approfondisce la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere. Le procure e i giudici ci confermano che, laddove esistano riferimenti normativi puntuali, certi abusi si riducono. Per permettere alle donne di denunciare, bisogna che anche la violenza economica sia riconosciuta».

Il marito le vieta di lavorare

Figlia di una donna scampata alla tratta, Chineyne, nata e cresciuta in Italia, a 20 anni sposa un italiano. A 21 partorisce una bambina: lui le chiede di licenziarsi. A lei, che lavora da quando ha 15 anni, sembra un gesto affettuoso. A 25 è già madre di 3 figli, la piccola somma che lui le passa non basta più, servono vestiti e medicine per i bambini. Chineyne chiede di tornare a lavorare per arrotondare; lui l’accusa di essere una cattiva madre, diventa aggressivo, le nasconde i documenti e comincia a controllarla. Dai 26 ai 29 anni Chineyne esce di casa solo per portare i figli a scuola e fare la spesa. Si salva con l’aiuto di una maestra: ora vive coi bambini in una casa rifugio.

L’ex non paga gli alimenti

Serena ha ottenuto la separazione dal marito: consensuale, con l’affido condiviso dei 2 figli. Non avendo una casa di proprietà, deve cercare un affitto per sé e i bambini, il suo avvocato la convince che non otterrà più dello scarso assegno familiare che il marito le riconosce, perché l’accordo prevede che lui tenga i bambini 2 giorni alla settimana e a weekend alterni. Ma l’ex disattende i turni, costringendola a occuparsi dei figli a ciclo continuo e impedendole di lavorare a tempo pieno. Poi comincia a centellinare l’assegno. Ogni mese Serena deve mendicare il dovuto, con estenuanti telefonate all’avvocato e all’ex. Stremata, si rivolge a un altro legale. Sei anni dopo non ha ancora ottenuto quanto le spetta.

Il compagno taglia le spese

Tiziana conosce Angelo nella redazione di un quotidiano: lui è caporedattore, lei una brillante giornalista praticante. I due cominciano a uscire insieme. Alla fine del praticantato è l’unica dei tre giovani a cui il giornale non offre un contratto. Lei sospetta che sia per quella relazione; lui, evasivo, le propone di vivere insieme. In mancanza di alternative, Tiziana comincia a collaborare con una rivista di ricamo. Un anno dopo hanno un bambino, lei resta a casa a occuparsene: un femminile le offre di collaborare, ma per Angelo pagare una baby sitter per scrivere «su certe riviste da sartina» non vale la pena. In più, critica il modo in cui lei gestisce i soldi, tagliandole le spese e spingendola ad acquistare prodotti sottocosto. Tiziana è in stallo, senza risorse per cercare aiuto.

Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano

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