Violenza sulle donne: una storia virtuosa

Barbara viveva una vita sotto il controllo del marito. Un Gps sul telefono e uno sulla macchina per tracciarla nei pochissimi spostamenti consentiti: la mattina per accompagnare i bambini a scuola, il pomeriggio per portarli al catechismo o a una festa. Il suo matrimonio era un catalogo di umiliazioni, insulti, botte. E stupro: perché questo è un rapporto sessuale non consensuale, anche con il proprio compagno. Tra i pochi numeri che Barbara poteva chiamare, quello della famiglia d’origine che, però, era lontana. Da qualche dettaglio di sofferenza, sua sorella intuisce che Barbara è vittima di violenza e, disperata, chiede aiuto alle forze dell’ordine del suo paese. Chi raccoglie l’allarme contatta la Polizia giudiziaria della Procura di Tivoli, che è vicino a casa di Barbara. Non c’è una denuncia, la sorveglianza del marito è serrata, va aperto un varco di comunicazione. La sorella chiede a Barbara se vuole incontrare due donne in grado di aiutarla e lei dice di sì. Un pomeriggio porta i figli a una festa dove, come in un crime americano, Cinzia Cirillo, responsabile della Polizia giudiziaria della Procura di Tivoli, e l’appuntata scelta dei Carabinieri Katia Capozzolo, in servizio presso la stazione di Tivoli che lavora con la Procura, si mimetizzano tra le mamme e la contattano. Da quel momento si rivedono in ogni occasione possibile, raccolgono le testimonianze necessarie per procedere contro l’uomo. Dopo qualche settimana, una mattina, portati i bambini a scuola, Barbara va in una casa-rifugio dove i figli la raggiungeranno nel pomeriggio. Poche ore dopo il marito viene arrestato.

Come lavora la Procura di Tivoli

Una storia come tante, quella di Barbara, ma con un esito non comune, frutto di un sistema unico in Italia. Siamo a Tivoli, provincia di Roma. Sui 10 magistrati che lavorano nella Procura guidata da Francesco Menditto, 5 si occupano di violenza sulle donne (tutti uomini tranne Arianna Armanini); c’è un nucleo di Polizia giudiziaria specializzato; le forze dell’ordine sono formate a riconoscere i fattori di rischio e a raccogliere le testimonianze in modo corretto e funzionale ai processi; è proibito usare la frase «è una lite domestica» poiché, come ci dice Menditto, «è sempre violenza». Qui nessuna denuncia cade nel vuoto: se l’atto violento non può essere immediatamente identificato come reato, con conseguente misura cautelare, le vittime sono subito seguite dai centri antiviolenza e dai servizi sociali, e in velocità è attivato il sussidio economico.

Integrati i procedimenti penali con quelli civili

Ultimo, ma non di minore importanza: la Procura ha integrato i procedimenti penali con quelli civili. Significa che, se un giudice segue una separazione che ha tra le cause la violenza, avrà tutta la documentazione e un consulente nominato dalla Procura che si affianca a quello nominato dal tribunale.

Non è scontato, non succede altrove. Il risultato è quantificabile: dal 2017 al 2022 le denunce sono raddoppiate, passando da 502 a 995. «Siamo sarte» commenta l’appuntata scelta Capozzolo. «Per ogni storia costruiamo un’azione di intervento specifica. Aggiunge Cirillo: «I fascicoli che trattano di violenza, su cui mettiamo un pallino rosso, non sono carte: lì dentro ci sono le vite delle donne. Loro ci portano un racconto, noi le aiutiamo a vedere dove c’è stato abuso. Come abbiamo fatto con Barbara, sosteniamo la vittima a diventare parte attiva della sua liberazione: sarà lei a mandarci le informazioni e a raccogliere le prove».

Volenza sulle donne come criminalità organizzata

«La violenza contro le donne va trattata con la stessa determinazione della lotta alla criminalità organizzata, anche perché i due fenomeni hanno molti punti in comune» ci spiega il Procuratore capo Francesco Menditto, che ha avuto una lunga esperienza a Napoli. «In entrambi i casi la recidiva, ovvero la possibilità che vengano compiuti di nuovo gli stessi reati, è altissima: l’85% circa. I due crimini hanno costi sociali elevati. Nel caso della violenza di genere, le donne non lavorano, i bambini che vivono in contesti violenti hanno problemi sanitari e sociali, rischiando di diventare a loro volta adulti violenti. E i reati accadono perché c’è una cultura omertosa che minimizza: non sostiene la vittima e non isola il violento».

Una rete preziosa

A Tivoli il silenzio sulla violenza di genere è stato scardinato giorno dopo giorno, dal 2016 a oggi, con incontri pubblici nelle scuole, nelle Asl, ovunque fosse possibile. In questi anni, con la regia di Menditto e dei magistrati del pool, è stata costruita una rete di intervento ampia ed efficace. In Procura c’è uno sportello di ascolto per le donne e i minori dove lavorano 2 psicologhe a tempo pieno; le vittime hanno sempre il numero di telefono di un carabiniere o di un poliziotto da chiamare in qualsiasi momento, di giorno e di notte; un accordo con i 75 Comuni del territorio fa scattare l’intervento immediato dei servizi sociali; dopo ogni denuncia le forze dell’ordine indirizzano le donne a un centro antiviolenza. In un territorio di 75 Comuni e circa 600.000 abitanti, ci sono 5 centri antiviolenza e 2 case-rifugio. E si fa un uso del braccialetto elettronico che non ha eguali nel resto d’Italia.

La storia di Alice

Come dimostra la storia di Alice. Ha 22 anni quando incontra Carlo: premuroso durante il corteggiamento, dopo l’inizio della relazione comincia a controllarle il cellulare e «mi sputava sul viso per ogni messaggio scambiato con un amico, mi chiamava di continuo, voleva vedermi tutte le sere, pubblicava le foto sui social al posto mio, non potevo indossare minigonna né sorridere a nessuno». In vacanza la situazione precipita. «Una sera cerco di impedirgli di guardare il mio telefono e lui mi prende per il collo, immobilizzandomi e tentando di soffocarmi». Le successive scuse di Carlo, intervallate da minacce di morte e di suicidio, mandano Alice in confusione. Al ritorno lo lascia, e da lì inizia un pesante stalking fino al giorno in cui, mentre lei è in auto, lui la ferma e la picchia per strada. Alice denuncia, le forze dell’ordine la accompagnano al centro antiviolenza La Sibilla, gestito da Differenza Donna, a Carlo viene messo il braccialetto elettronico. Pamela Amoroso, 35 anni di cui 15 spesi ad occuparsi di violenza sulle donne, racconta che «Alice era immersa in disturbo post traumatico: non usciva, dormiva poco, mangiava ancora meno, aveva flashback continui degli abusi. Noi l’abbiamo sostenuta elaborando insieme ciò che aveva subìto». Alice non era più sola ed è rinata: ha ripreso a lavorare, mangia, dorme, sorride.

Anche a 75 anni si può lasciare un uomo violento

«Le vittime di violenza si sentono monadi, vivono nel terrore di non essere credute o che toglieranno loro i figli» continua Pamela. «Il nostro lavoro è accoglierle e ascoltarle senza giudicare, ecco perché si affidano. E qui incontrano altre donne nella stessa situazione, fanno rete, si spezza l’isolamento». Dal femminicidio di Giulia Cecchettin è cambiato qualcosa? «Prima le vittime e gli autori avevano un’età media tra i 40 e i 50 anni, adesso vengono moltissime under 20 e over 65». Come Rosetta, che una mattina di agosto ha bussato alla porta del centro in camicia da notte dicendo: «Non torno più da mio marito, da una vita mi sveglio tra insulti e bastonate, ora basta». E così a 75 anni è andata a vivere in una casa-rifugio e avviato le pratiche di separazione. Un paio di giorni fa è passata a ringraziare le operatrici: aveva un filo di rossetto a colorarle il sorriso. Non è mai troppo tardi, se non si è da sole.