La scelta delle parole non è mai neutra, soprattutto quando si parla di argomenti delicati come i femminicidi e la violenza sulle donne. I giornalisti hanno la responsabilità di usare una terminologia precisa e rispettosa, che non banalizzi, minimizzi o giustifichi le violenze. Espressioni come “delitto passionale”, “crisi di gelosia”, “amore criminale” se associate a episodi di violenza, molestie o femminicidio vanno evitate perché hanno quasi l’effetto di “giustificare” il comportamento del carnefice che, al contrario, va descritto puramente per quello che è: un criminale.
Descrivere il crimine senza fraintendimenti
Purtroppo nel corso dei dibattiti televisivi come su alcune cronache giornalistiche si tende in certi casi a spostare l’attenzione dal reato alla vita privata della vittima, a suggerire una condivisione di colpa o a ridurre la gravità dei fatti. Le parole che dovrebbero essere utilizzate devono invece riportare senza alcun fraintendimento quanto è accaduto: “omicidio”, “aggressione”, “violenza”, “stalking”. Queste parole descrivono in modo chiaro e oggettivo la natura criminale degli atti. Usare una terminologia adeguata è un modo per contrastare la cultura della violenza e per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo inaccettabile stato di cose.
Il video-decalogo diffuso contro la violenza di genere
Le due maggiori organizzazioni di cronisti – il Sindacato cronisti romani (Scr) e il Gruppo cronisti lombardi (Gcl) – hanno aderito alla Giornata internazionale contro la violenza sulla donna del 25 novembre 2023 e lanciando un video-decalogo contenente alcune delle principali espressioni da bandire nei resoconti giornalistici su femminicidi, stupri, molestie e ogni altro genere di soprusi. Il video si può si può scaricare al link: https://bit.ly/3Gf59Ps
Addio a stereotipi maschilisti e patriarcali
Il linguaggio giornalistico, in qualsiasi ambito ma in particolare quando affronta il tema della violenza di genere, deve dimenticare i luoghi comuni, i pregiudizi, gli stereotipi maschilisti e patriarcali.
Basta espressioni come “era geloso” o “è stato un raptus”
Il decalogo – che si pone in linea con il Manifesto di Venezia, varato nel 2017, su come raccontare la violenza di genere – contiene le espressioni usate con maggiore frequenza da stampa ed emittenti radio-radiotelevisive, che di fatto forniscono alibi o indiretta giustificazione all’autore di un femminicidio: si va da “in preda a un raptus” (locuzione fuorviante, in quanto esclude la premeditazione) ad “amore criminale” (chi uccide non ama); da espressioni come “delitto passionale” e “accecato dalla gelosia” (il piano sentimentale non deve diventare esimente).
“Aveva bevuto”, “era sola”: non giustificano la violenza
Completamente fuorvianti rispetto a un delitto che rimane tale e pertanto ingiustificabile, risultano descrizioni della vittima che farebbero supporre una sua corresponsabilità (“estroversa”, “vivace”, ecc.), riferimenti alle sue attività precedenti l’evento (“aveva bevuto”, “passeggiava da sola”, ecc.), spesso utilizzate in seguito dalla difesa a fini processuali, fino all’uso pleonastico degli aggettivi possessivi
(“la sua fidanzata”, “sua moglie”).
I cronisti: “Linguaggio corretto, sobrio e rispettoso”
“Un uso corretto, sobrio e rigoroso del linguaggio – hanno dichiarato Fabrizio Peronaci e Fabrizio Cassinelli, presidenti del Sindacato cronisti romani e del Gruppo cronisti lombardi – può avere un ruolo decisivo per sradicare i residui della cultura maschilista che purtroppo ancora oggi, non di rado, influisce negativamente su una corretta narrazione dei fatti. L’invito è quello di aderire al decalogo e a implementarlo. Va da sé che ognuno di noi, nel racconto quotidiano di un femminicidio, conosce l’ampia gamma di termini offensivi o sottilmente insinuanti che violano la pari dignità di genere”.