La luce rosata del tramonto diventa opaca mentre quella degli occhi di Ana si accende. «Non lavoravo nei campi da tre anni. Ho dovuto ricominciare, dopo avere perso il posto da ragioniera. Stamattina mi sono alzata prestissimo, alle 4, perché noi braccianti alle 6 siamo già nei campi: prepariamo il terreno per piantare le fragole, lo concimiamo. Devo stare sempre piegata anche per 12-13 ore, adesso che sono incinta del mio secondo bimbo è faticosissimo». Ana abbassa lo sguardo soltanto quando cerca le parole adatte per rispondere. Ha 32 anni, è arrivata in Italia con i genitori da 10. Vorrebbe riuscire a finire l’università, Economia e commercio, ma non se lo può permettere nonostante il marito abbia uno stipendio e non paghino l’affitto perché vivono con i suoceri.
Ana è una delle 119 donne impiegate in agricoltura di origine rumena e bulgara intervistate per il rapporto Cambia Terra. Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura realizzato da ActionAid nell’ambito del programma che dal 2016 si occupa di indagare e intervenire sulle condizioni di vita e di lavoro delle donne in agricoltura in Puglia, Basilicata e Calabria per tutelarne i diritti. E quello che emerge dal report è una situazione terribile. In cui però si iniziano a intravedere degli spiragli di luce.
Donne braccianti: i dati sono inquietanti
Ma andiamo con ordine. E partiamo dai numeri. Secondo i dati Istat, in Italia sono 233mila le donne occupate in agricoltura, silvicoltura e pesca, il 48 quali risiede nel Mezzogiorno. Oltre la metà sono lavoratrici dipendenti, le altre imprenditrici e lavoratrici in proprio. E fin qui, sembra tutto bene. In realtà, però, diverse indagini hanno messo in luce che la presenza femminile in agricoltura è ampiamente superiore ai dati ufficiali. Anche perché sono le donne a essere richieste per garantire maggiore cura per la raccolta della frutta più delicata come fragole, pesche, albicocche. Tale scarto numerico ci indica quindi che ci sono molte donne che lavorano irregolarmente.
Non ci sono dati certi, ma sarebbero tra 51 e 57mila le lavoratrici sfruttate in Italia. Donne invisibili, che avendo bisogno di guadagnare cadono nella trappola del lavoro nero, del reclutamento illecito, delle irregolarità contrattuali o della totale assenza di un contratto. Quello cioè che viene chiamato caporalato e che, per dare un’idea, muove un’economia illegale di oltre cinque miliardi di euro. Un giro di soldi pazzesco che però arricchisce le tasche dei caporali. Non certo quelle delle braccianti.
«Guadagno 38 euro al giorno. Chi riesce lavora senza interruzioni, dal lunedì alla domenica» racconta Ana. E a lei – anche se è terribile da dire – sembra andare fin bene. Perché, per esempio, nella Piana del Sele in Campania gli uomini percepiscono circa 40-42 euro al giorno mentre le donne al massimo 28. A questo salario da fame, si aggiunge la pratica molto comune da parte del datore di lavoro di dichiarare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle effettivamente lavorate. «Un’abitudine che impedisce alle donne non solo di accedere all’indennità di infortunio, malattia e disoccupazione, agricola, ma anche a quella di maternità» spiega Adriana Patrichi, 45 anni, rumena.
Chi si occupa dei figli delle donne braccianti
Operaia agricola in Calabria, prima di diventare interprete in tribunale e leader di ActionAid, Adriana offre una fotografa impietosa: «Uno dei problemi di cui non si parla è quello della maternità: la gestione dei figli è davvero difficile per le lavoratrici agricole» dice. «Alle due o alle tre di notte, le mamme prendono i bambini addormentati e, se non hanno familiari di riferimento, li portano a casa di estranee che ne accudiscono cinque, sei o dieci. Mandarli all’asilo non è possibile, l’orario non lo permette».
In Calabria esistono, quindi gli asili nido irregolari, servizi a pagamento, anche quelli in nero, con personale senza alcuna formazione che si occupa dei piccoli fino all’arrivo dei genitori. Perché, come ci spiega Maurizio Alfano, ricercatore ed esperto del fenomeno: «La lentezza della politica pubblica dei centri per l’impiego dei servizi di welfare permette al caporalato di insinuarsi e di offrire pacchetti “all inclusive” che comprendono lavoro, alloggio, trasporti, asili».
Le violenze fisiche, psicologiche, sessuali
«Tanto, a chi interessa dove lasciamo i nostri bambini?» chiede Adriana, stringendo le labbra. «A nessuno. Le braccianti sono invisibili, sono solo numeri. A volte devono anche rinunciare al loro nome se è difficile da pronunciare. Sono le schiave del mondo moderno» continua. Schiave che non solo devono sopportare orari e condizioni di lavoro disumani, ma spesso anche violenze psicologiche, fisiche, sessuali che minano la loro autostima. «Le donne in agricoltura sono esposte a molestie, ovunque: sui luoghi di lavoro, sui mezzi di trasporto che le conducono ai campi, nelle serre, nei magazzini di confezionamento, negli alloggi. Ci si sente sparire, ci si sente delle nullità, perché si viene considerate oggetti» conclude Adriana.
E il meccanismo dei caporali è tanto semplice quanto aberrante: più la donna viene maltrattata, più diventa debole e quindi più è gestibile. Ma denunciare è difficile. Perché innanzitutto queste donne non hanno gli strumenti e le conoscenze necessari. E poi perché reagire può significare finire nelle “liste nere”. «I caporali si telefonano l’uno con l’altro per segnalare le braccianti piantagrane. C’è uno scambio di manodopera e quindi di informazioni. Il sistema è sofisticato: è come se fossimo di fronte a un ufficio di collocamento totalmente irregolare e criminoso, in grado di gestire la manovalanza» dice Alfano.
Cambiare il paradigma è possibile
Per fortuna, però, qualcosa sta cambiando, anche grazie al lavoro di organizzazioni come ActionAid. «Innanzitutto da circa tre anni si è preso coscienza che i braccianti non sono solo uomini africani, come è sempre stato nel nostro immaginario. Ma sono anche tantissime donne europee, bulgare e rumene soprattutto» continua il ricercatore. E questa consapevolezza ha permesso di cambiare il paradigma, iniziando a pensare le politiche pubbliche al femminile.
«Poi si è capito che le braccianti non vanno viste solo come vittime. Perché sono donne che possono diventare protagoniste del cambiamento» dice Grazia Moschetti, Responsabile ActionAid per Cambia Terra. E così è stato, grazie alla co-progettazione e alla sperimentazione di servizi di welfare in grado di rispondere davvero ai bisogni di queste lavoratrici.
Degli esempi? «I Cpia, ovvero i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, in alcuni Comuni hanno posticipato le lezioni di italiano alle 17, così quando le donne tornano dai campi riescono a essere in aula. A Corigliano Rossano, in Calabria, è stata creata la “Cittadella della condivisione”, uno spazio sicuro dove le donne informano e supportano le altre donne, in pratica, uno sportello che le orienta ai servizi pubblici sociosanitari del territorio, offre servizi di tutela legale, sindacale, della salute, abitativa e di mediazione. E ad Adelfa in provincia di Bari, l’asilo dà la possibilità di portare i bambini già alle 4 del mattino» conclude Moschetti.
Tutte iniziative che danno un aiuto pratico a queste donne ma che soprattutto restituiscono loro dignità e fiducia. E anche un sorriso. Quello che vediamo sul volto di Ana che ci manda una foto: sono le 4 del mattino e con la sua bella pancia sta portando all’asilo comunale il suo primo figlio.