I capelli e la barba quasi bianchi, la pelle abbronzata, gli occhi azzurri. Guardatelo nella nuova fiction Gli orologi del diavolo (su Rai1 dal 9 novembre, per 4 puntate in prima serata, e on demand su RaiPlay) e poi ditemi se Giuseppe Fiorello non è diventato molto più fascinoso ora che ha passato i 50 anni. Prima di cominciare l’intervista glielo faccio notare, e lui si schernisce. «Interpreto un meccanico, me lo immaginavo aitante e muscoloso, ho lavorato su quell’idea di fisicità». Però ride sotto i baffi. «Mi vedrete anche svestito, c’è una scena molto romantica con Claudia Pandolfi».
A dire il vero, Gli orologi del diavolo è una storia tutt’altro che lieve. Si basa su una vicenda realmente accaduta a un motorista navale, che finì suo malgrado infiltrato in un cartello di narcotrafficanti per conto della polizia. Il vero protagonista, Gianfranco Franciosi, ha vissuto per un lungo periodo sotto la minaccia di essere ucciso, come ha raccontato in un libro edito da Rizzoli e appena ripubblicato, Gli orologi del diavolo. Ora Fiorello lo porta in tv come esempio di quell’impegno civile che è diventato la sua cifra stilistica.
Negli anni lei ha interpretato il magistrato Paolo Borsellino, il carabiniere Salvo D’Acquisto, il medico canonizzato Giuseppe Moscati, l’operaio Enzo Muscia che ha salvato dal fallimento la fabbrica che lo aveva licenziato… «Tutti eroi che grazie alle mie fiction hanno avuto il riconoscimento che meritavano. Ne vado fiero, anche se ne ho pagato lo scotto».
In che modo? «Avere una connotazione televisiva così precisa mi ha reso quasi impossibile entrare nel mondo del cinema, quasi come se mi fossi creato un “recinto”. I grandi produttori mi hanno snobbato».
Però lei non ha cambiato direzione. «Forse perché mio padre faceva il finanziere e mi ha trasmesso l’amore per i valori civili. Oppure perché la Sicilia in cui sono cresciuto era una terra devastata dalla mafia, dove tutti avevano paura e nessuno parlava. Avevo voglia di spezzare l’omertà, di gridare al mondo che esistono uomini coraggiosi, capaci di grandi gesta. Molti di loro in qualche modo somigliavano a mio padre».
Com’è andato l’incontro con Gianfranco Franciosi? «L’ho conosciuto sul set, è un uomo resiliente, siamo diventati amici».
Lei ha detto che nei suoi personaggi c’è sempre qualcosa che le appartiene. Vale anche stavolta? «Durante le riprese ho rivisto me stesso nel mio ruolo di padre. Il protagonista ha un rapporto molto bello e delicato con la figlia, e l’attrice che la interpreta, Gea Dall’Orto, mi ricordava la mia Anita».
Anita, la sua primogenita, ha quasi 18 anni. E poi c’è Nicola, di 15. «Quando è nata mia figlia ero molto spaventato dalla responsabilità di crescere una femmina. Temevo di diventare troppo geloso, perché lo ero stato parecchio da fidanzato. Ma pian piano sono riuscito a costruire con lei un rapporto di completa fiducia. E dopo l’ho fatto anche col maschio».
Che cosa fanno i suoi figli? Uno dei due seguirà la carriera paterna? «Anita ci sta riflettendo, ha già avuto un’esperienza importante a New York, alla scuola di recitazione Lee Strasberg. Ora la assorbe lo studio, dovrà superare la maturità, poi ne riparleremo. Nicola è più piccolo, ho appena cominciato a farlo appassionare al cinema d’autore, chissà».
Come ci è riuscito? A quell’età i ragazzini al massimo seguono le serie tv. «Durante il lockdown in primavera l’ho convinto a guardare con me C’era una volta in America di Sergio Leone, e da lì è scattato qualcosa. Lui poi ha voluto vedere i film con Robert De Niro e quelli diretti da Scorsese e Tarantino. Ora se li studia e ci confrontiamo. L’altro giorno ha visto Il laureato e mi ha chiamato: “Papà, lo dovrebbero proiettare a scuola, ti fa venire voglia di vivere”».
Con Eleonora Pratelli, la loro madre, avete appena festeggiato 10 anni di matrimonio. «E siamo rimasti a casa tra noi, in tranquillità. Saremmo potuti uscire a cena, non era ancora tempo di chiusure, ma con l’aumento dei contagi non me la sono sentita».
A proposito di pandemia, si dice che lei sia più ipocondriaco di Carlo Verdone. (Ride, ndr) «Probabilmente è vero. I miei amici mi considerano un ansioso tremendo, perché se mi capita un malanno voglio capire subito di che cosa si tratta: capace che per un mal di testa mi faccio una Tac. Tuttavia, adesso in tempi di pandemia c’è un paradosso».
Quale? «Il mondo sta dando ragione a noi ipocondriaci, possiamo vivere nell’ambiente asettico che abbiamo sempre sognato. La mascherina in aereo io la indossavo già 20 anni fa: che sollievo vedere che oggi è obbligatoria per tutti».