«Scrivere per me significa libertà. È come se potessi sollevarmi dalla realtà della guerra e alle mie tragedie personali». Così David Grossman, 65 anni, una delle più autorevoli voci israeliane, alla fine di una lunga chiacchierata risponde alla mia domanda su cosa significhi scrivere per chi come lui vive in una terra combattuta. L’immaginazione è tutto, «soprattutto se sei in mezzo ai conflitti, con il ricordo di quelli passati e la paura di quelli che stanno per arrivare». La guerra è presente anche nel suo ultimo, intenso romanzo La vita gioca con me (Mondadori, traduzione di Alessandra Shomroni): racconta l’epopea di 3 donne – Vera, la nonna, Nina, la madre, e Ghili, la figlia – che si riuniscono dopo anni per ricordare, ritrovare insieme le proprie radici.
Vera, ebrea croata di 90 anni, ora in un kibbutz in Israele, ha un passato doloroso che comprende la deportazione in un campo di rieducazione sull’isola di Goli Otok, nell’ex Jugoslavia, dove venivano rinchiusi negli anni ’50 i dissidenti, durante il regime di Tito. Una storia che nasce dalla realtà. Dai ricordi di Eva Panić Nahir, che ha anche ispirato una serie tv in cui racconta gli orrori del gulag. È stata lei a mettere la sua testimonianza nelle mani di Grossman.
«Un giorno mi telefonò e disse “David!” con una voce buffa, decisa. Mi raccontò di lei, dei suoi parenti, come se fossi un membro della famiglia. E alla fine mi chiese: “Non voglio disturbarla, ma posso richiamarla ogni tanto?”». Quello fu l’inizio, dice Grossman, di un’amicizia durata 20 anni, fino al 2014, quando Eva è morta a 97 anni. «A poco a poco, di telefonata in telefonata, Eva si apriva: riaffioravano i ricordi e l’amore e la pena per il marito morto 50 anni prima in prigione, accusato di essere una spia di Stalin».
Contro i conflitti
Grossman era affascinato da quella donna e dalla sua testimonianza, ma ha aspettato 15 anni prima di farla diventare “sua”. «Riesco a scrivere solo di qualcosa che è radicato dentro di me. Se è una storia che viene “da fuori”, da vicende che ho letto o che mi sono state raccontate, deve avere la forza, l’abilità di toccarmi nel profondo e farmi venire voglia di capire».
In Israele La vita gioca con me è uscito solo 8 mesi fa. «Prima dovevo scrivere Applausi a scena vuota e Caduto fuori dal tempo (li pronuncia in italiano, ndr). Perché per me ogni libro è il veicolo per un altro romanzo. E il successivo non può esistere senza il precedente, senza che in qualche modo io abbia già affrontato certi argomenti». Applausi a scena vuota, del 2014, è un susseguirsi di ricordi. Caduto fuori dal tempo, che in Italia è uscito nel 2012, è una lettera d’amore al figlio Uri, ucciso nel 2006, a 20 anni, mentre era in missione militare sul fronte libanese. Più volte Grossman si è pronunciato a favore della pace fra israeliani e palestinesi. La guerra, in questo romanzo, filtra attraverso l’esperienza, terribile e crudele, della prigionia nel gulag. «Chi ha già letto il libro in Israele mi ha detto che per la prima volta in decenni ha trovato il coraggio di chiedere ai propri familiari cosa succedesse davvero in quei campi. E io credo che raccontare la storia sia necessario. Anche se non ho voluto mettere nel libro le esperienze orribili di cui ho sentito, mi sembrava già abbastanza duro così».
«Raccontare la storia è necessario. Per lasciare traccia del nostro passaggio nel mondo. E per imparare una lezione da quello di cui stiamo parlando»
Nel nome della memoria
C’è un fil rouge che ricorre nei libri di Grossman: la memoria. Un’urgenza dettata anche dalla sua identità. «Per gli ebrei è un obbligo religioso: devi ricordare. Non solo: devi raccontare ai tuoi figli e imparare una lezione da quello di cui stai parlando. È il bisogno di lasciare una traccia del nostro passaggio nel mondo. Qualcosa di reale, di concreto, per sentire che la nostra vita ha avuto un senso, che c’eravamo». La guerra, la memoria. E poi le donne, personaggi forti, incredibili, come le 3 protagoniste di La vita gioca con me. «Vera, Nina e Ghili sono molto diverse l’una dall’altra, hanno voci e mentalità differenti, ma condividono una ferita che viene trasmessa di generazione in generazione. Non c’è un personaggio più importante dell’altro, però penso di identificarmi di più con Nina, la figlia 60enne di Vera, col suo tormento e il suo isolamento». Di più, si raccomanda Grossman, non possiamo dire, per non togliere al lettore il piacere di scoprire come ha lavorato la sua immaginazione.
Al fianco delle donne e dei bambini
«Le cose più importanti sulla vita e su me stesso le ho imparate dalle donne» mi spiega. «Ne ho incontrate di volonterose, coraggiose, a loro agio con la propria esistenza, la propria psiche e il proprio corpo. Molto più dei maschi. E tenga presente che ho conosciuto alcuni degli uomini più intelligenti della terra!». Ride. E mi racconta delle sue nipotine, a cui fa “babysitting”, dell’amore per la narrativa per l’infanzia: «Voglio scrivere di questo periodo magico, difficile e complicato, in cui non riesci a esprimere tutta la gamma di emozioni che ti ruggiscono dentro perché non hai le parole per farlo».
Di libri per bambini ne ha già pubblicati una ventina – «ma ora con 2 nipotine piccole probabilmente lo farò più di frequente» – e porta avanti una personale campagna per promuovere la lettura da parte dei genitori. «Tocca a loro condurre i bimbi verso parole nuove, presentare l’umorismo o il surrealismo. Farli sentire avvolti e protetti. Soprattutto di notte, quando sono soli, con le ombre sul muro e le voci che arrivano dalle altre stanze. Mi ricordo quanto ci ho messo prima di capire che mio padre non poteva entrare dentro ai miei sogni e salvarmi. Perciò scrivo anche per loro».