«Ho sempre desiderato che il mio lavoro avesse anche un pensiero politico, civile». Giuseppe Fiorello, 54 anni e 30 di carriera in cui ha spesso interpretato uomini che hanno lasciato il segno, da Salvo d’Acquisto a Paolo Borsellino, negli ultimi tempi si è interrogato sul proprio ruolo di narratore.
Giuseppe Fiorello e la Sicilia degli anni Ottanta
«Viviamo in un mondo accelerato dove, se hai bisogno di tempo per realizzare un progetto che ti somigli, la gente pensa che sei sparito. Ma io ho ritmi lenti, per me conta avere qualcosa da dire» racconta da Roma, dove vive con la moglie Eleonora e i figli Anita, 20 anni, e Nicola, 17. Dopo 3 anni di lavorazione, dal 23 marzo è al cinema Stranizza d’amuri, splendido debutto alla regia che prende in prestito il titolo da un brano di Franco Battiato. Il film, di cui è anche co-sceneggiatore, è ambientato durante i Mondiali di calcio dell’82 ed è liberamente ispirato all’omicidio dei fidanzati Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola a Giarre 2 anni prima. Protagonisti, Nino (Gabriele Pizzurro) e Gianni (Samuele Segreto), innamorati in una società che li rifiuta.
Intervista al regista
«Avevo questa storia nel cassetto da un decennio. Volevo raccontare un amore puro, con tutte le difficoltà che gli amori puri incontrano» spiega Fiorello, che cattura la bellezza e le tensioni di un’estate indimenticabile sullo sfondo di luoghi meravigliosi come Noto, Marzamemi, Ferla, Buscemi, Priolo e Pachino. «Siamo ossessionati dalla velocità. Io volevo rappresentare la vita, che è fatta soprattutto di tempi dilatati. Dirigere questo film è stata un’esigenza».
Perché? «Ci rivedo parte della mia adolescenza: sono cresciuto in quei luoghi e Battiato è stato la mia colonna sonora di quegli anni».
La sua adolescenza com’è stata? «Bellissima, ma anche implosa dentro di me. Ero troppo timido, mi sentivo diverso dai miei coetanei estroversi. L’ho superata con la morte improvvisa di mio padre. Avevo 20 anni e, paradossalmente, la sua scomparsa mi ha forzato a sbloccarmi: forse, se fosse ancora con noi, mi sarei cullato nel suo calore. Amava la mia timidezza e aveva previsto quello che sto facendo per mestiere, anche se all’epoca non avevo velleità artistiche chiare. In questi personaggi ho riversato pezzi della mia vita».
Com’era la provincia siciliana all’inizio degli anni ’80? «Siamo nati e cresciuti ad Augusta, una città portuale molto moderna. La mia terra è sempre stata all’avanguardia, ma spesso viene raccontata per altre cose. Da mesi siamo su tutte le copertine per la cattura di un mafioso (Matteo Messina Denaro, ndr) e se ne parlerà per anni. Eppure la Sicilia è capace di molto altro: la morte di quei ragazzi ha fatto nascere in quella terra di stereotipi, machismo e patriarcato il movimento più grande per i diritti omosessuali e civili, l’Arcigay. Ne vado molto orgoglioso».
La discriminazione resta però all’ordine del giorno. «Avrei preferito che questo fosse un film storico, ma di storie come questa ce ne sono ancora tante. Spesso è all’interno della famiglia che si consumano le tragedie più gravi, le più silenti: è lì che bisogna lavorare, ma se la politica fa certe dichiarazioni, le famiglie culturalmente predisposte a discriminare i figli si sentono autorizzate».
Lei è cresciuto in una famiglia moderna? «Molto, ci hanno fatto capire che la cosa più importante per noi sarebbe stata la libertà di pensiero e di espressione. Mio padre, guardia di finanza, quando attraversavamo un momento di crisi, diceva che il tempo avrebbe fatto per noi. Viviamo come su di un fiume e dobbiamo lasciarci trasportare. Comu veni, si cunta: quel che viene lo racconteremo. Per mia madre lo studio era uno strumento fondamentale, perché senza cultura si rischia di essere schiacciati. È stata una vita bella e semplice, la mia, e l’ho messa nel film».
Quanto rivede dei suoi genitori nel suo essere padre? «Non dico di essere bravo perché di errori ne faccio. Quando è nata Anita pensai che sarei stato possessivo e geloso. Non è andata così, li ho sempre lasciati liberi. Ho rinunciato con piacere, spesso, a dei lavori che mi avrebbero fatto stare lontano per troppo tempo: stare coi miei figli mi fa crescere. Se abbiamo un dialogo appassionato e bello è anche merito di mia moglie, un pilastro fondamentale».
Ha mai il mal di Sicilia? «È all’ordine del giorno! Non so se ci tornerei a vivere, ma ci vado spesso e passo le estati lì, come fanno anche i miei figli. La mia terra è per sua natura lo spazio migliore al mondo per dire cos’è il green, per i luoghi, il clima, tutte le risorse che ha. Purtroppo, dagli anni ’40 in poi, qualcuno ebbe la visionaria e tragica idea di posizionare dei petrolchimici in varie zone. Come il Polo di Augusta-Priolo: i pescatori associarono a quella visione di progresso l’idea di un lavoro sicuro, che c’è poi stato per decenni».
Il prezzo da pagare è stato alto. «È stato un conto salato, malattie e tumori hanno colpito la popolazione. La mia non è un’accusa a chi accettò questa cosa, anche noi ci abbiamo creduto. L’inquinamento in quel mare è irreversibile, ma si sta facendo tanto: le tecnologie di oggi hanno saputo circoscrivere alcune zone per non far irradiare il disastro. Oggi tutte le ciminiere sono state convertite, alcune sono spente. È venuto meno il tema del lavoro, molti sono andati in cassa integrazione. Quelle persone vanno tutelate e capite, non accusate di disastro ambientale. C’erano state manifestazioni di protesta da parte di chi aveva previsto come sarebbero andate le cose e qualcuno ci ha rimesso la vita. Da anni inseguo il sogno di raccontare questa storia, come ho fatto in parte nel mio spettacolo (Penso che un sogno così, ndr): non con un tono di accusa, ma di sogno. Su altri fronti, da anni Michelangelo Giansiracusa, sindaco di Ferla, sta cercando di far diventare il paese a impatto zero. Un lavoro difficile ma che guarda avanti. E ha incontrato subito la volontà degli abitanti: a dimostrazione del fatto che i siciliani sono pronti a tutto affinché si possa fare della Sicilia una narrazione nuova e pulita».