Trauma, grave sofferenza, ferita indelebile: così siamo abituati a pensare all’aborto. Ma proviamo a immaginare anche come si sente una donna a cui questo diritto viene negato. Proviamo a immaginare cosa pensa mentre non trova il medico che le rilasci il certificato, o è costretta ad aspettare una settimana «per pensarci ancora un po’», con il tempo che intanto scorre. O, peggio, quando ginecologi e operatori sanitari la accolgono con frasi tipo: «Doveva pensarci prima!», «Ti sei divertita, ora paghi», «Deve sentire il battito del feto, è fondamentale!», «Siamo donne, dobbiamo soffrire».

La campagna di Medici del mondo dal 18 settembre

In realtà tutto questo è vero, non occorre immaginarlo, perché accade realmente da nord e sud della nostra Italia, come denuncia Medici del Mondo, rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute, nella nuova campagna The unheard voice in vista del 28 settembre, Giornata internazionale per l’aborto sicuro: dal 18 settembre a Roma in Piazza San Silvestro una speciale installazione (una teca trasparente con un piccolo ambulatorio ginecologico) permette di ascoltare per la prima volta cosa accade nelle stanze degli ospedali in cui le voci delle donne vengono spente per far sentire loro il “battito” del feto o le parole di chi – medici e operatori sanitari – vogliono impedire loro di abortire. Un pugno nello stomaco per chi si immerge nell’esperienza virtuale, una forma di violenza brutale per le donne che la vivono nella realtà.

La violenza psicologica quando l’aborto viene negato

«Oltre alle difficoltà concrete, sul territorio, di accedere all’aborto – ricordiamo che in Italia i due terzi dei ginecologi sono obiettori e in alcune strutture il cento per cento – esiste anche la violenza psicologica, una vera forma di tortura, di cui si parla meno» spiega Elisa Visconti, direttrice di Medici del Mondo Italia, che proprio il 18 settembre presenta il report Aborto a ostacoli. Come le politiche di deterrenza minacciano l’accesso all’interruzione di gravidanza (consultabile sul sito medicidelmondo.it). «Il linguaggio denigratorio, l’ascolto del “battito” del feto (su cui la comunità scientifica non è unanime) e la negazione degli antidolorifici sono solo alcune delle pratiche a cui sempre più di frequente vengono sottoposte le donne. Ma anche questo è un trauma, come vogliamo sottolineare nella nuova campagna».

Il trauma dell’aborto negato: lo studio Turnaway

Lo sostiene da tempo la scienza, a partire da uno dei primi studi, il Turnaway, condotto dall’Università di San Francisco. Prosegue la direttrice Visconti: «I dati testimoniano come il mancato oppure ostacolato accesso all’IVG abbia ripercussioni molto forti sulla salute mentale delle donne, che hanno probabilità più elevate di sviluppare ansia o depressione. Anche lo stigma a cui vanno incontro all’interno della propria rete sociale e all’interno delle strutture sanitarie, le espone a un maggior rischio di sviluppare un disagio psicologico negli anni successivi». Lo studio insomma assesta un colpo a uno dei cavalli di battaglia dei movimenti pro-vita: avere un aborto (volontario) non danneggia la salute delle donne, ma vederselo negato sembrerebbe di sì. «I dati – prosegue – sfatano la convinzione che chi abortisce provi sempre rimpianto, dolore o persino disturbo da stress post-traumatico. Al contrario, l’emozione più comunemente riportata dalle donne è stata il sollievo».

Un’esperienza personale su cui solo la donna può decidere

D’altra parte, un’esperienza come questa è del tutto intima e personale, ma soprattutto si svolge nel e sul corpo delle donne. Per questo alla campagna di Medici del mondo ha voluto partecipare anche l’attrice Laura Formenti, che ha scelto un registro ironico, coraggioso e non banale, di sicuro non stereotipato: «Ogni persona vive le esperienze sul suo corpo come desidera. Per alcune donne è un dolore, per altre un sollievo, per altre una scelta necessaria, per altre ancora una esperienza della loro vita e come comica io so bene che anche dramma e comicità possono essere due facce della stessa medaglia.  Non sta a noi imporre o indurre uno stato emotivo necessario per accedervi».

Sull’aborto dibattito sempre più polarizzato

Il fatto è che in Italia discutere di aborto vuol dire per forza schierarsi, soprattutto negli ultimi anni, in cui assistiamo a un arretramento globale rispetto ai diritti sessuali e riproduttivi e a una maggior polarizzazione rispetto al diritto all’aborto a livello internazionale. «Da un lato ci sono il Parlamento Europeo, che ha approvato  l’inserimento dell’aborto nella Carta dei diritti fondamentali, la Corte Costituzionale della Spagna che ha approvato una legge che permette alle ragazze minorenni di abortire senza il consenso dei genitori e la Francia che ha inserito il diritto all’aborto nella propria Costituzione nella primavera del 2024» sintetizza la dottoressa Elisa Visconti. «Dall’altro c’è un aumento allarmante di politiche altamente restrittive rispetto all’IVG promosse da alcuni stati degli USA come il Texas, l’Oklahoma e l’Alabama, l’Ungheria e negli anni scorsi la Polonia. L’Italia si inserisce in questa seconda categoria».

«La 194 non si tocca!»: ma sicuri che vogliamo tenercela così com’è?

In Italia abbiamo la Legge 194 del 1978, che fu un grande compromesso per l’epoca, ma che ormai è superata, anche rispetto alle indicazioni terapeutiche. «È una legge con parecchie zone grigie che sono state prontamente sfruttate dagli oppositori all’aborto e che hanno generato negli anni ostacoli di varia natura, come l’ingresso di gruppi antiabortisti all’interno di ospedali e consultori (che spesso avvicinano le donne in modo ambiguo, con camici bianchi) e gli alti tassi di obiezione di coscienza: nel 2021 la media nazionale era del 63,4% tra il personale specializzato in ginecologia. Ricordiamoci che la legge prevede l’obiezione di coscienza ma anche il dovere dell’obiettore di indicare alla donna una struttura o un medico alternativi che la possano assistere. E che la stessa legge non prevede l’obiezione di struttura, che invece in Italia esiste, come documentano le tante testimonianza che abbiamo raccolto e che pubblichiamo nel nostro report».

Aborto farmacologico: non pervenuto

A questo si aggiungono la riduzione del numero di consultori familiari (oggi, uno ogni 20mila persone circa) e la mancata o parziale implementazione delle Linee di Indirizzo 2020 del Ministero della Salute rispetto all’aborto farmacologico, in cui ne veniva raccomandata l’attuazione. Racconta sui social queste criticità anche la psicologa Federica Di Martino dal suo profilo Instagram IVGstobenissimo, diventato per le donne in difficoltà un punto di riferimento, come altre reti informali (@laiga_194, @obiezione.respinta, @prochoicerica e i nodi territoriali di @nonunadimeno), in grado di dare risposte e soccorso alle persone laddove non arriva lo Stato. «In Italia, soprattutto in alcune regioni, è difficile non solo trovare strutture e medici non obiettori, ma anche semplici informazioni sull’iter per abortire. Sul sito del Ministero della Salute e delle singole regioni il percorso è tortuoso, ancora peggio sulla RU486, la pillola abortiva, di cui l’Oms stesso raccomanda l’utilizzo, spiegandone la sicurezza e i vantaggi. Io vengo regolarmente contattata da donne in confusione a causa delle informazioni che trovano online sulle conseguenze (false) di questa somministrazione».

Poca chiarezza nei consultori

Oggi i consultori sarebbero infatti anche i luoghi dove poter accedere all’aborto farmacologico – con la RU486 – fuori dall’ospedale. «Eppure non accade così» dice Federica Di Martino. «In molti consultori non viene spiegato alle donne che hanno un’alternativa al ricovero in ospedale. E anche nei casi in cui la pillola Ru486 venga somministrata, si fa in ambulatorio, quindi con l’obbligo di sottoporsi a più appuntamenti, mentre in altri Paesi si può prendere a casa propria, con l’aiuto della telemedicina». Da un lato quindi la legge 194 spinge le donne nei consultori, dall’altra i governi negli anni li hanno ridotti drasticamente e svuotati di competenze, aprendone le porte – oltretutto – al Movimento per la vita. «In Italia un tema esclusivamente di salute viene strumentalizzato e trattato in modo ideologico» commenta la direttrice Elisa Visconti. «Invece l’aborto dovrebbe essere considerato come qualsiasi altra pratica in regime di Lea, tant’è che proprio nei Lea viene garantito. Per questo la discussione andrebbe riportata su un piano laico».

L’aborto sicuro è una questione di salute pubblica

Come sottolinea Medici del mondo, l’Oms ha ribadito più volte che la mancanza di accesso a cure abortive sicure, tempestive, economiche e rispettose è un problema critico di salute pubblica e di diritti umani. L‘aborto non sicuro è una delle principali cause di mortalità materna a livello internazionale. Dei circa 121 milioni di gravidanze indesiderate che si verificano ogni anno nel mondo, il 60 per cento si conclude con un aborto. Di questi aborti, il 45 per cento avviene in condizioni non sicure, a causa dell’accesso limitato al servizio. Per questo i numeri parlano di 39.000 decessi all’anno, mentre 7 milioni di persone sono costrette all’ospedalizzazione. Dati i numeri, attualmente l’aborto sicuro e legale è più di una questione di salute pubblica: è un’emergenza sanitaria.

Limitare l’accesso all’aborto aumenta il ricorso a quello clandestino

Emergenza rispetto a cui la politica però resta sorda, e non solo nel nostro Paese. Per riportare la discussione su un terreno laico, basterebbe pensare che l’Italia con 63mila aborti all’anno è uno dei Paesi al mondo dove si praticano meno IVG. L’emergenza quindi non è l’alto numero di aborti ma il contrario: la difficoltà di accedervi rischia di aumentare quelli clandestini. «È dimostrato infatti che limitare l’accesso all’IVG non riduce il numero di aborti, ma aumenta la probabilità che le ragazze e donne ricorrano a procedure non sicure e non rispettose dei diritti della persona. La percentuale di aborti non sicuri infatti è significativamente più alta nei Paesi con leggi altamente restrittive sull’IVG» spiega la direttrice di Medici del Mondo.

La petizione europea e le richieste alla politica

Per garantire accesso all’aborto libero e sicuro in tutti gli stati membri dell’Unione Europea (20 milioni sono le donne in Europa che non hanno accesso all’IVG), Medici del mondo aderisce alla petizione europea My voice, my choice, che chiede proprio un impegno delle istituzioni. Impegno che viene chiesto anche a livello nazionale. Presentando il secondo report sulla violenza psicologica cui le donne vengono sottoposte in molti ospedali, l’organizzazione chiede una sostanziale revisione della legge 194, che sintetizza così la direttrice Visconti: «Tra i punti salienti, l’aumento o la rimozione del limite legale di età gestazionale in cui è possibile ricorrere all’IVG; l’abolizione dell’attesa forzata di sette giorni tra la prima visita e la procedura di IVG; l’abolizione dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario che opera in strutture sanitarie che forniscono servizi legati all’IVG. L’interruzione volontaria di gravidanza deve essere considerata esclusivamente come un atto medico, privo di connotazioni ideologiche, volto a garantire la tutela della salute psicofisica della persona gestante. Quindi chiediamo l’esclusione delle associazioni di matrice antiabortista nella selezione degli enti autorizzati a fornire informazioni e orientamento sull’IVG negli ospedali e nei consultori. All’interno del percorso terapeutico, è fondamentale assicurare un’informazione basata su evidenze scientifiche, affinché la persona abbia gli strumenti e possa prendere una decisione libera e consapevole».

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