Libere e uguali, le linee guida: abbattere gli stereotipi

Se parliamo di violenza di genere, gli stereotipi sono particolarmente dannosi perché si traducono in pregiudizi o atti discriminatori e creano narrazioni che contribuiscono a mantenere e a giustificare certe forme di abuso. Per cercare di sradicarli, tre studiose dell’Università degli Studi di Milano – Francesca Poggi, professoressa ordinaria di Filosofia del diritto, Irene Pellizzone, professoressa associata di Diritto costituzionale (nonché delegata dalla Rettrice alla prevenzione del fenomeno della violenza di genere in ateneo), Anna De Giuli, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche – hanno scritto il Dizionario breve sugli stereotipi associati alla violenza di genere e alla vittimizzazione secondaria (è già scaricabile gratuitamente su humanhall.unimi.it) all’interno del progetto Human Hall, hub per l’inclusione e la tutela dei diritti umani nato come spoke di MUSA (Multilayered Urban Sustainability Action, finanziato dall’Unione Europea – NextGenerationEu Pnrr).

Libere e uguali, le linee guida: l’importanza di Human Hall

«L’idea è nata nel 2022 perché, lavorando nelle scuole, i primi a chiederci aiuto sono stati proprio gli insegnanti che assistevano a episodi di violenza ma non sapevano cosa fare» spiega Pellizzone. «Questo Dizionario – che verrà presentato il 25 novembre all’Università di Milano e distribuito nei prossimi mesi nelle scuole di primo e secondo grado, oltre che nelle sale di attesa del consultorio, degli ambulatori, del Pronto soccorso pediatrico e ginecologico del Policlinico di Milano – serve per renderci coscienti di alcune narrative che sono parte integrante della nostra cultura e che si attivano in maniera automatica sminuendo il problema della violenza di genere».

Contiene tutte le lettere dell’alfabeto, dalla A alla Z. Alcune si riferiscono a parole apparentemente positive ma che possono nascondere stereotipi. «Un esempio? F come Famiglia. È lo spazio degli affetti e della protezione, ma può essere anche il luogo di violenza e sopruso: una percentuale significativa di reati, infatti, avviene proprio tra le mura domestiche» spiega Pellizzone. Altre lettere, invece, a prima vista hanno un significato negativo, in realtà sono grida di aiuto di chi vuole uscire dalla violenza.

L’alfabeto della violenza, da riconoscere e prevenire

«Prendiamo la E di Esagerata! Si sa, spesso le donne esagerano: non puoi fare una battuta, allungare la mano sul ginocchio, dare una pacca sul sedere, fare una critica che subito gridano alla violenza. Ma, se una battuta è offensiva e sessista, rivela una mancanza di rispetto. Allungare una mano o dare una pacca sul sedere integrano il reato di violenza sessuale. Le critiche, se dirette a colpire la dignità, possono concorrere a configurare una forma di violenza psicologica. Il problema è che certi comportamenti tendono a essere minimizzati e tollerati dalle stesse vittime» conclude la docente.

Un bel progetto che vorrebbe creare una rete con le scuole per instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi e per provare a immaginare, insieme a loro e agli insegnanti, una seconda edizione, magari dedicata alla violenza online.

Libere e uguali, le linee guida: aumentare la sicurezza

Il cellulare tra le mani. Le chiavi di casa strette nel pugno. Niente auricolari. Lo spray al peperoncino nella borsa. Il passo svelto che a tratti diventa vera e propria corsa. Camminare in città, soprattutto quando è buio, ci fa paura: ce l’hanno detto tutte le ragazze che abbiamo incontrato in questi mesi. E lo confermano i numeri: secondo gli ultimi dati Istat, in Italia una donna su 2 teme di uscire da sola di sera. Per farci sentire più sicure ci sarebbero strategie efficaci, come aumentare l’illuminazione e la frequenza dei mezzi pubblici. O anche solo promuovere l’app YouPol, con cui è possibile chiedere aiuto in diretta alla Polizia.

Ma la violenza si manifesta sempre di più anche online, attraverso abusi verbali, ricatti ma anche social challenge (per esempio, su Tik Tok è nata la terribile Boiler summer cup, ovvero la sfida a conquistare una ragazza sovrappeso e filmare la scena a sua insaputa). Anche in questo caso i dati non sono rassicuranti: sono 826 i casi di violenza di genere online gestiti nel 2023 dalla Polizia Postale.

L’impegno della Polizia Postale

«Quanto accade in Rete, quanto viene condiviso, veicolato e scambiato sui social, rappresenta un prolungamento della nostra vita sociale ed è sempre più frequente il fatto che comportamenti verbalmente violenti, persecutori e delatori siano un’anticipazione di violenze concrete. Tutto può partire dalla pretesa della condivisione dei profili social come segno di fedeltà, si prosegue con l’obbligo di una supervisione sull’outfit della serata tra amiche, fino alla pretesa di una geolocalizzazione sempre aperta, che consenta al partner di verificare “da remoto” gli spostamenti» spiega Manuela De Giorgi, Primo Dirigente della Polizia di Stato e Dirigente del Centro Operativo della Sicurezza Cibernetica Lombardia.

Per contrastare questi fenomeni la Polizia Postale, accanto all’attività di indagine, svolge un importante lavoro di prevenzione e sensibilizzazione organizzando incontri nelle scuole. E mette a disposizione sul sito commissariatodips.it tutta la sua expertise: il portale rappresenta uno spazio protetto nel quale chiedere informazioni sui reati online e avere velocemente a disposizione un aiuto pronto e qualificato contro ogni forma virtuale di aggressione.

Libere e uguali, le linee guida: supportare i centri antiviolenza

In Italia il sistema di sostegno e accoglienza delle donne che subiscono abusi si regge sul lavoro dei centri antiviolenza e delle case rifugio, strutture la cui esistenza è prevista dalla legge, ma che lo Stato non è mai riuscito a finanziare in modo adeguato e omogeneo. Nel 2024 il fondo per le politiche su diritti e pari opportunità destinato a centri antiviolenza, case rifugio e altre iniziative ammonta a 55 milioni di euro, 20 in più dei 35 milioni stanziati nel 2022: non proprio pochi ma, per un meccanismo piuttosto farraginoso, arrivano spesso in ritardo e a macchia di leopardo sul territorio.

La dura realtà dei centri antiviolenza

«I centri oggi sopravvivono. Senza fondi non solo facciamo fatica ad accogliere le donne vittime di violenza ma soprattutto a programmare» spiega Anna Agosta, consigliera nazionale di D.i.Re – Donne In Rete Contro la Violenza. «Manca la certezza dei tempi in cui arriveranno i finanziamenti. Ci chiedono di accogliere e proteggere le donne, di garantire la disponibilità 24 o su 24: ma con quali soldi? Per fare un esempio, in Sicilia quest’anno abbiamo ricevuto 20-30.000 euro. Con quella cifra ci paghiamo a stento l’affitto».

Per avere fondi ne fondi necessari a sopravvivere, i centri antiviolenza partecipano a bandi europei, bandi di fondazioni private e iniziative autonome che sostengono la loro attività e che permettono di sviluppare nuovi progetti. Tra questi, la chat di D.i.Re, un servizio di messaggistica anonimo e gratuito partito il 28 ottobre, attivo dal lunedì al venerdì dalle 12 alle 16, esclusi i festivi, realizzato grazie al sostegno di Saugella (direcontrolaviolenza.it). «Questa chat è un’ulteriore possibilità, uno spazio sicuro dove le donne e le ragazze possono trovare informazioni e supporto per affrontare situazioni di violenza» conclude Agosta. E fin dai primi giorni i messaggi sono stati moltissimi.

Formare i magistrati e gli avvocati

Partiamo da una buona notizia. Le donne che denunciano sono sempre di più. E a testimoniarlo ci sono i numeri del Tribunale di Milano, dove il totale delle sentenze per reati di violenza domestica quest’anno è aumentato da 930 a 1.089 (+159 rispetto al 2023). Un dato importante, perché dietro a quel numero ci sono storie di donne che finalmente hanno trovato il coraggio di ribellarsi.

«Ma, affinché il sommerso riesca a venire a galla e quel numero continui ad aumentare, dobbiamo concentrarci sul contesto: se è accogliente e rispettoso, per le donne è più facile denunciare» spiega Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano. Perché lo sia, per prima cosa dovremmo lavorare sulla vittimizzazione secondaria: quel fenomeno per il quale le vittime di un reato, e in particolare di una violenza, vivono ulteriori disagi di tipo psicologico e sociale perché non sono ascoltate o supportate o addirittura vengono colpevolizzate. Una sofferenza che è possibile evitare.

L’impegno del Tribunale di Milano

«Stiamo lavorando a una serie di progetti, alcuni già in atto, altri in partenza il prossimo anno, per cercare di non fare sentire sole o perfino colpevoli le donne quando denunciano. Abbiamo aumentato le risorse dei tribunali, ovvero il numero di giudici: così i tempi dei processi dovrebbero velocizzarsi. Teniamo conto che a oggi l’86% dei procedimenti del Tribunale di Milano si conclude entro i 3 anni» spiega Roia. Ancora troppi per una donna che ha subìto violenza e che magari è in pericolo di vita. «Lavoriamo poi sulla specializzazione dei giudici: facciamo una formazione pratica attraverso incontri con operatrici dei centri antiviolenza e ginecologhe; organizziamo corsi professionalizzanti per gli avvocati in cui vengono insegnate le tecniche di difesa non invasive nei confronti delle donne, per esempio come porre le domande giuste».

È importante lavorare anche con i media: «Abbiamo una collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti perché, per spezzare l’idea di impunità culturale, bisogna fare capire che per questi reati si va in carcere e c’è bisogno di una comunicazione costante, non solo quando avvengono i femminicidi». Ma manca ancora qualcosa. «I fondi. E un modo per ottenerli potrebbe essere dare la possibilità al sistema giudiziario italiano di usufruire di una percentuale, anche il 10%, dei soldi che riusciamo a recuperare con i processi e che adesso finiscono nel bilancio dello Stato».

Libere e uguali, le linee guida: inserire il consenso nel Codice Penale

È come un treno, per viaggiare ha bisogno di due binari paralleli: un impianto legislativo adeguato da un lato, una nuova cultura dall’altro. Se vogliamo contrastare la violenza di genere, questi due aspetti vanno affrontati insieme. Soprattutto quando si parla di un tema delicato come il consenso.

«L’articolo 609 bis del Codice Penale relativo alla violenza sessuale recita: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da 6 a 12 anni”. Questa formulazione, però, non include ipotesi, che sono purtroppo ricorrenti, in cui l’autore dell’abuso non ha concretamente agito violenza fisica o minaccia. Si pensi per esempio alla persona offesa che per la paura si è immobilizzata o tutte quelle situazioni in cui la violenza è stata repentina. Oppure a una festa in cui la donna assume alcolici e si trova in una situazione in cui un uomo la accompagna in una zona appartata dove improvvisamente la aggredisce» specifica Elena Biaggioni, avvocata penalista e vicepresidente di D.i.Re – Donne In Rete Contro la Violenza.

È chiaro che gli estremi di reato ci sono tutti. Ma si potrebbe dire che non c’è stata materialmente la violenza né la minaccia né l’abuso di autorità che la norma menziona. «Sono tutte ipotesi che la giurisprudenza della Corte di Cassazione riconosce già e sono già punibili, ma sono anche casi in cui è facile che si innestino pregiudizi e stereotipi che ne impediscono la corretta lettura. Per evitare che ciò accada, sarebbe utile che l’articolo 609 bis venisse modificato in modo da includere anche la dicitura “senza il consenso”».

Le mancanze normative, il rischio per le donne

Forse per la mancanza di una norma chiara, dietro al concetto di consenso si nascondono equivoci che vanno a discapito delle donne. Per fare luce su questi chiaroscuri abbiamo deciso di portare in scena al nostro evento del 25 novembre Consent di Nina Raine, un incastro di dolori e violenze che trasla il tema del consenso (anche) dentro una coppia borghese sposata.

«Grazie al teatro possiamo scardinare la narrazione comune e creare un immaginario più ampio. In Via col vento c’è una scena in cui Rossella O’Hara viene praticamente violentata da Rhett Butler. Certo, sono sposati, ma risulta comunque chiaro che lei non dia il suo consenso, anzi. La scena successiva la ritrae il giorno dopo sorridente, felice. Stiamo parlando di un film del 1939, di una narrazione inserita in un contesto storico e sociale completamente diverso dal nostro, ma è anche vero che ancora oggi siamo abituate a vivere queste cose e a normalizzarle» dice Laura Tedesco, co-fondatrice di Amleta, associazione per il contrasto della disparità e della violenza di genere nel mondo dello spettacolo.

Dello stesso parere sono Giulia Maino e Giulia Trivero, attrici e componenti di Amleta, che porteranno sul palco Consent: «Quando si parla di consenso si pensa in automatico a rapporti occasionali o a relazioni appena nate, invece questo abuso di potere succede anche nelle coppie che stanno insieme da anni. È per questo che è importante far conoscere testi come Consent: perché danno spazio a storie e voci femminili differenti che possono cambiare il punto di vista, far nascere una cultura relazionale non violenta e creare un’alleanza tra uomini e donne».