Prima le recenti sentenze sui femminicidi di Bologna e Genova, con pene fortemente ridotte per i colpevoli. Poi il caso di Marianna Manduca, uccisa dall’ex marito e ai cui figli è stato deciso che non spetti il risarcimento, nonostante la donna avesse più volte denunciato il coniuge, senza che alle sue parole due pm avessero dato corso. La cronaca rimanda una serie di casi di violenza contro le donne o delitti nei quali le donne non vengono ascoltate, vittime di pregiudizi secondo cui spesso si ritiene che o mentano o esagerino i fatti.

La parola delle donne vale di meno

Una vera piaga che si verifica nelle aule dei tribunali, ma che trova conferme in ogni ambito della vita sociale e culturale italiana, secondo la giudice Paola Di Nicola Travaglini, autrice del libro La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio (HarperCollins): “Al di là dei singoli episodi, esiste un problema in questo tipo di reati, in cui la parola di chi denuncia è contrapposta a quella di chi è denunciato: mentre la vittima è obbligata a dire la verità, perché è testimone (altrimenti commette il reato di calunnia o falsa testimonianza), l’imputato ha il pieno diritto di dichiarare il falso o avvalersi della facoltà di non rispondere, previsto dalla legge. In un sistema del genere, è chiaro che la parola di chi ha l’obbligo di dire la verità dovrebbe valere come quella dell’altro, invece continuiamo a vedere donne che non sono credute quando denunciano una violenza” dice la giudice.

Anche madri e amiche sminuiscono la violenza

Paola Di Nicola Travaglini è figlia di un magistrato e attualmente è in servizio presso il Tribunale penale di Roma. Nominata Wo-Men Inspiring Europe 2014 dall’Agenzia europea EIGE (European Institute for Gender Equality) per il suo impegno contro gli stereotipi di genere, spiega che il problema non riguarda solo il mondo della giustizia: “Esistono dei pregiudizi nel nostro Paese, per cui o non si crede alle donne che denunciano violenza oppure, quando lo si fa, si ridimensionano le loro parole e lo si fa a partire dall’ambito familiare. Le madri o le amiche, al racconto di un maltrattamento, tendono a sminuire i fatti, magari dicendo ‘Forse non hai capito bene’, ‘Forse era nervoso’. È un atteggiamento giustificazionista nei confronti di chi ha commesso la violenza che porta le donne a non essere più consapevoli di aver subito un abuso e dunque a non denunciare” spiega la giudice, che ci tiene all’uso del femminile anche nella definizione delle carriere.

La nostra cultura ridimensiona le donne in ogni ambito

“Il ridimensionamento delle capacità e delle competenze femminili riguarda qualsiasi ambito, non riguarda solo la violenza fisica: quando siamo interrotte mentre parliamo, quando non siamo invitate a discutere di economia o tecniche di costruzioni, quando siamo assenti in alcuni posti di potere, è anche lì che avviene lo svilimento delle donne. Così come avviene quando siamo definite con aggettivi o qualifiche al maschile” spiega Di Nicola, che di recente ha preso anche il cognome della madre, Travaglini, proprio per dare visibilità alle donna, in questo caso a una casalinga.

I pregiudizi contro le donne in magistratura

Paola di Nicola Travaglini è anche autrice di un libro intitolato La giudice e spiega l’importanza dell’uso del femminile: “Ci tengo ad essere chiamata la giudice perché alle donne è stato vietato per legge l’accesso alla magistratura fino al 1963. Se io oggi posso indossare la toga è grazie alle battaglie condotte in passato da altre colleghe, alle quali io sono riconoscente. Il mio è un femminile che vuole sottolineare il fatto che l’istituzione giudiziaria era vietata alle donne in quanto donne” spiega Di Nicola Travaglini.

Ddl Pillon e violenza contro le donne

Inevitabile il riferimento al ddl Pillon, al centro del dibattito in queste settimane. “Per come è strutturato, ritengo che il disegno di legge chiuda la bocca alle donne che intendono denunciare violenze subite in ambito familiare. Parte dal pregiudizio che le donne mentono e esagerano, e quindi sono causa di alienazione nei figli se questi non vogliono frequentare il padre, che magari hanno visto picchiare la madre. Si dà la colpa alla donna, ancora una volta non le si crede” commenta la giudice.

Gli stereotipi si combattono dall’infanzia

“Serve un nuovo femminismo, anche perché in Italia il movimento #MeToo non c’è stato: alcuni stereotipi appartengono ancora alla nostra cultura e potranno cadere solo iniziando dalle scuole e dalle famiglie. Ne siamo ancora così immersi da non rendercene conto e quindi continuiamo a replicarli. È per questo, ad esempio, che sembra naturale che una donna sia pagata meno. Certi pregiudizi sono dettati dalla paura che le donne possano occupare posti di potere tradizionalmente maschili” dice la giudice.

I consigli alle donne

Le donne restano le vittime principali, non solo ovviamente del femminicidio che è l’omicidio delle donne per definizione, ma anche nei casi di stalking. Secondo i dati Istat (2017), la maggior parte dei reati di molestie sul lavoro riguarda il genere femminile, mentre l’85 per cento di chi li commette è uomo. In una situazione del genere la giudice Di Nicola Travaglini dà tre consigli alle donne:

“Il primo è non cedere mai di fronte alla lesione della dignità femminile, sia nei nostri confronti che in quelli di altre donne. Non esitate, dunque, a intervenire in caso di battute sgradevoli, barzellette inopportune o complimenti non opportuni che svalutano la vostra figura” dice Di Nicola Travaglini.

“Il secondo consiglio è di usare sempre il femminile, per rivendicare la nostra ricchezza e differenza in quanto donne. La terza esortazione è di non tacere mai di fronte alle violenze” conclude la magistrata. Nonostante i recenti episodi, Paola Di Nicola, sottolinea: “È vero, c’è un ritardo, ma su migliaia di sentenze che sono emesse ogni giorno ce ne sono anche di eque. Il dibattito che si è attivato è sempre utile perché serve anche alla magistratura per crescere”.