100 anni. Un altro modo di dire mai. È il tempo che la nostra legislazione prevede debba passare perché un figlio non riconosciuto alla nascita possa avere informazioni sulla donna che l’ha partorito. Un diritto negato per circa 400.000 persone in Italia, secondo i dati dei Tribunali per i minorenni: ragazzi e ragazze adottati da piccoli, uomini e donne ormai adulti che mai rinnegherebbero la famiglia che li ha accolti e cresciuti, ma che non vogliono rinunciare, se lo desiderano, a riempire quel vuoto dato dall’incertezza delle proprie origini.
Il racconto di chi ha ritrovato i suoi fratelli
Come è successo a Luisa Di Fiore, 63 anni, di Roma, mamma e nonna, che nel 2000 ha fondato “Figli adottivi e genitori naturali”, associazione che si batte per chiedere che venga riconosciuto questo diritto. «Ero una delle neonate del brefotrofio di Villa Pamphili, a Roma» ricorda. Chi fossi davvero l’ho scoperto a 18 anni “grazie” a un litigio con una mia compagna di classe che un giorno mi sbatté la verità in faccia: “È vero che sei stata adottata?”. Tornata a casa, lo chiesi a mia madre e lei confermò». Da quel momento Luisa, per cui i genitori adottivi «sono stati la salvezza fisica ed emotiva», inizia timide ricerche. «Sentivo il bisogno di dover mettere insieme i pezzi della mia storia, come in un lungo assestamento tellurico. Andai all’orfanotrofio. Ma mi dissero solo che mia madre mi aveva partorita all’ospedale San Giovanni». Allora prova a cercare online nelle chat di figli dei parti anonimi, ma la svolta arriva nel 2013. «Una donna che mi aveva visto in televisione, dove avevo fatto un appello per ritrovare mia madre, mi chiamò, dicendomi di averla conosciuta. Mi raccontò che era sarda, si era risposata ed era tornata in Sardegna». Luisa non riuscì mai a incontrare sua madre. Non perché lei non volesse, ma perché era già morta. Con tenacia e pazienza, però, grazie anche alle banche online del Dna, ha ritrovato i suoi fratelli. «Conoscerli e riscoprire un pezzo del mio passato per me è stato fondamentale. Mi ha dato identità, equilibrio, consapevolezza. Mi ha fatto sentire “intera”» racconta.
Che cosa dice la Legge dei 100 anni
Tutte sensazioni che magari altre persone adottate potrebbero provare. Sempre che le norme glielo permettano. Ma cerchiamo di capire a che punto siamo. La legge che disciplina le adozioni è la numero 184 del 1983: al comma 7 dell’articolo 28, soprannominato “Legge dei 100 anni”, stabiliva che chi non è stato riconosciuto alla nascita doveva aspettare un secolo prima di poter accedere alle generalità della madre biologica. Una norma pensata per proteggere, giustamente, la privacy della donna che decide di avvalersi del parto in anonimato. Ma che mette in secondo piano il diritto dei figli che vogliono conoscere la propria storia e che per questo nel 2012 è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo. Una grande ingiustizia, soprattutto se si pensa che per i figli riconosciuti e dati in adozione il segreto è vincolato per 25 anni. Nel 2013 la Consulta ha dichiarato incostituzionale quel comma 7 e ha eliminato il riferimento ai 100 anni, mantenendo però l’impossibilità da parte dei figli non riconosciuti di accedere alle informazioni sulle loro origini. A seguito di quella sentenza, e in attesa che venga emanata una legge vera e propria, il figlio adottivo può chiedere al Tribunale per i minorenni di interpellare la madre biologica e domandarle se vuole revocare l’anonimato. In quel caso può avere accesso alle informazioni sulla propria origine, come i dati sanitari e la permanenza in istituti, ma non incontrarla. Al momento, a occuparsi della questione sono i 29 Tribunali per i minorenni esistenti sul territorio nazionale, in base alla discrezionalità del giudice.
Come cambiare la Legge dei 100 anni
Ma adesso, forse, qualcosa si muove. Merito anche del film Il più bel secolo della mia vita, con la regia di Alessandro Bardani e gli attori Sergio Castellitto e Valerio Lundini, che a marzo è stato proiettato in Senato e, raccontando la storia di due figli non riconosciuti, ha sollevato il velo su queste istanze. La senatrice del Movimento Cinque Stelle Elisa Pirro ha appena presentato una mozione parlamentare. «Ci sono diverse sentenze che affermano che dover aspettare 100 anni per poter conoscere il proprio passato non sia corretto e che non ci sia un giusto bilanciamento tra i diritti del genitore di mantenere l’anonimato e quello del figlio: con questa mozione invitiamo il governo a farsi carico della responsabilità di modificare la norma attuale» spiega. Ovvero, concedere ai figli non riconosciuti il diritto di aspettare “solo” 25 anni prima di poter conoscere, se si vuole, le proprie origini.
Scoprire le proprie origini non è sempre facile
Un diritto per cui lottano tanti ragazzi e adulti adottati, al fianco anche di donne che a loro volta hanno adottato. Come Elena Goretti, 47 anni, di Milano, mamma di Elisa, 13 anni, una bambina non riconosciuta alla nascita, e di Nina Uyen, quasi 7, che viene dal Vietnam. «Esiste questa idea che i genitori adottivi siano intimamente ostili a quelli biologici. Questo a volte mi fa sorridere perché solo chi ha una visione vaga dell’adozione può pensare che ci sia una competizione, un “rubare” un figlio a un’altra o un voler secretare tutte le informazioni» dice. «L’adozione è una protezione, non un furto. È una famiglia dove crescere in pienezza e salvarsi. Ed è un diritto sacrosanto di mia figlia, se in futuro lo vorrà, conoscere le informazioni sulla donna che l’ha partorita. Perché magari l’aiuteranno a completarsi. Ma dobbiamo togliere l’aspetto romantico di questa vicenda. Perché prendere in mano quel fascicolo per un adottato adulto potrebbe non essere un momento felice. È un momento legittimo, sicuramente, ma non nostalgico né commovente. È solo un momento di dura verità che potrebbe svelare informazioni, condizioni psichiatriche e sociali difficili da accettare».
La storia di Francesca
Lo sa bene Francesca, 49 anni, di Genova. «Fin da piccola sapevo di essere stata adottata. E quando mi guardavo allo specchio, con i capelli nero corvino e la carnagione scura, mi dicevo: la mia mamma biologica sarà stata una nobildonna siciliana» racconta. Poi si ammala e ha necessità di venire a conoscenza dei dati sanitari. Con l’aiuto di una segretaria del Tribunale per i minorenni ottiene alcune informazioni sulla donna che l’ha partorita. «Leggo solo poche righe di quel fascicolo. C’era scritto che io ero la decima, che mia madre era una donna calabrese che aveva abbandonato tutti i figli avuti fuori dal matrimonio. Mi bastarono quelle parole per farmi crollare il mondo addosso. E per decidere di non voler sapere altro» conclude, asciugandosi le lacrime.
L’importanza di un supporto psicologico
Una scelta dolorosa, ma comprensibile perché non sempre la storia che ci costruiamo coincide con la realtà. «Cercare le proprie origini significa integrare due mondi, due io, due appartenenze» spiega lo psicoterapeuta Francesco Vadilonga, direttore del Centro di Terapia dell’Adolescenza di Milano. «Spesso questa ricerca per le persone adottate è fondamentale perché le aiuta a recuperare un senso di continuità, a costruire la propria identità, a ricucire quello strappo avvenuto subito dopo la nascita per cui l’integrazione, il mettere insieme i pezzi è un’ottima cura». Che però costa sempre fatica, dolore, coraggio. «Ed è per questo che servirebbe un accompagnamento psicologico» conclude l’esperto. Un altro diritto, doveroso, per i figli adottivi che cercano le proprie origini.