Il nostro progetto Libere e uguali, con la collaborazione scientifica dell’Università degli Studi di Milano e Fondazione Libellula, ha preso il via con il primo tavolo di lavoro proprio nella sede dell’Università degli Studi di Milano.
Libere e uguali, il primo tavolo sugli stereotipi
Il tavolo, che si è tenuto il 18 marzo, era dedicato alla lotta contro gli stereotipi di genere, alla base della cultura della disparità e della violenza. A questo ne seguiranno altri tre sui temi che costituiscono i pilastri di una nuova società più paritaria: l’educazione all’affettività, per insegnare fin da piccoli a entrare in contatto con le proprie emozioni, rispettando anche quelle degli altri; l’indipendenza economica e la genitorialità condivisa, per garantire a donne e uomini pari opportunità nel lavoro e supportare le madri lavoratrici; il ruolo dei media nel contrasto alla violenza, per responsabilizzare i professionisti dell’informazione a una cultura rispettosa della donna.
Le aree di intervento concreto emerse dal primo incontro

Dopo aver consegnato alla Presidente del Consiglio il nostro Libro bianco con 25 proposte per contrastare la violenza di genere, quest’anno passiamo all’azione: l’obiettivo è rendere concrete alcune di queste proposte. E il primo tavolo non ci ha deluso. Le partecipanti, coordinate dalla nostra direttrice Maria Elena Viola, si sono trovate d’accordo sull’importanza della formazione perché gli stereotipi si radicano fin dalla primissima infanzia: occorre quindi lavorare sugli insegnanti a partire dalla formazione universitaria e poi fin dalla scuola primaria; sui libri di testo; sui genitori e sui ragazzi nel momento dell’orientamento. Infine sulle aziende.
Più che educazione sessuale, ci vuole allenamento all’empatia

Il primo step da cui partire per destrutturare gli stereotipi è la scuola dell’infanzia. La dottoressa Chiara Gregori, sessuologa e ginecologa, raccomanda: «Più che un’educazione alla sessualità, che giustamente spaventerebbe i genitori, ci vorrebbe un allenamento all’empatia. Il timore dei genitori va legittimato, occorre cioè riconoscere le emozioni delle famiglie che non possono essere ignorate, proprio come gli stereotipi. Come combatterli se non li riconosciamo?».
Libere e uguali: contro gli stereotipi fin dagli ambulatori di ostetricia
Stereotipi visibili ben prima della scuola dell’infanzia, a partire addirittura dagli ambulatori di ostetricia: «Già nel momento di scoprire il sesso del nascituro, vediamo gli schemi mentali in azione: se è un bambino sarà “incontenibile”, se è una femminuccia sarà “una principessa”, se poi la nascitura tiene le gambine incrociate “ha già capito come deve fare”, e così via. Questa cultura stereotipata determina già quello che il mondo si aspetterà dal bambino fin dal momento in cui nasce. E quindi pretenderà, tra le altre cose, che il bambino dia baci e abbracci, anche quando non vuole: alla base della cultura del consenso c’è questo rispetto della persona fin dalla primissima infanzia. Occorre spiegare che gli abbracci vanno offerti, non dati. E mettere in conto che ci si può anche rifiutare, insegnando ai piccoli a entrare in contatto con le proprie emozioni».
La cultura del consenso si costruisce da piccoli
Abbracci e baci rubati ai bambini fanno parte di una cultura adultocentrica. La conferma viene da Irene Biemmi, professoressa associata di Pedagogia di genere presso il Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia dell’Università di Firenze (FORLILPSI). «Non pretendere i baci dai bambini e dalle bambine, insegnare loro che possono anche negarli e spiegare loro come farlo, vuol dire educarli alla cultura del consenso. Purtroppo gli stereotipi non solo vengono impunemente veicolati, ma sono istituzionalizzati attraverso il sapere trasmesso a scuola, cioè i libri di testo».
Contro gli stereotipi: lavorare con le case editrici
La professoressa Biemmi individua così tre aree di intervento: «Occorre lavorare con le case editrici, per scrivere libri di testo davvero liberi dagli stereotipi, e ancora prima formare gli insegnanti, che a loro volta potranno lavorare sui bambini in un’ottica di genere. Purtroppo ora molto è affidato alla volontà degli insegnanti stessi».
Una proposta concreta potrebbe quindi essere quella di stilare delle linee guida per le case editrici, come suggerisce Laura Nacci, linguista, direttrice della formazione di SheTech e autrice del libro Che palle sti stereotipi: «Gli stereotipi ingabbiano anche i maschi, e lo vedo per esempio quando lavoro nelle aziende mostrando alle persone il ruolo degli stereotipi nella costruzione dell’immagine dell’altro: con alcuni esercizi le persone si mettono nei panni dell’altro, e lì la visione cambia. Ma cambia anche per le aziende stesse: quando si comincia a fornire gli strumenti per decriptare la realtà, arrivano le segnalazioni di abusi e soprusi. Ma non perché questi aumentino: semplicemente perché diventa visibile ciò che prima non lo era».
Il bollino per i libri e la banca dati delle best practise
Oltre alle linee guida per gli editori, potrebbe aiutare anche un marchio che identifichi i libri, proprio come quello che certifica le aziende in tema di parità di genere. La proposta viene da Irene Pellizzone, professoressa di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano e Delegata della Rettrice per la prevenzione della violenza di genere, che osserva – tra l’altro – come agli insegnanti servirebbe anche una formazione giuridica, per sapere come intervenire in caso di bambini e bambine che assistono alla violenza in casa o ne sono vittime. «Se alcuni libri diventassero preferibili ad altri, questi altri si adatterebbero, creando così un effetto domino virtuoso. Una cabina di regia potrebbe validare i testi. Anche una banca dati sulle best practise sarebbe un buon punto di partenza»
Libere e uguali: contro gli stereotipi occorre più orientamento
Ma la vera spaccatura tra donne e uomini si gioca al momento dell’orientamento, «cioè quando ragazze e ragazzi scelgono gli studi universitari in base agli stereotipi per cui le donne non sono adatte alle discipline Stem» spiega la professoressa Biemmi. «Occorre fare un orientamento non di informazione ma di formazione, e soprattutto coinvolgere il maschile: hanno più bisogno di insegnamenti di genere i ragazzi, oggi, delle ragazze. La parità farebbe bene a tutti e libererebbe tanti giovani dalle gabbie dello stereotipo del maschio forte a tutti i costi».
Serve uno strumento per misurare l’educazione
Nella formazione a scuola, però, c’è una criticità, su cui concordano la professoressa Biemmi e Barbara Urdanch, pedagogista, formatrice AID e membro del Comitato scientifico di MyEdu: «Non serve chiamare l’esperto che porti un progetto alla classe: l’ideale sarebbe formare gli insegnanti che tutto l’anno lavorino in un’ottica paritaria. Servirebbe poi uno strumento osservativo per capire che tipo di educazione stanno seguendo le scuole».
Il fronte educativo sta molto a cuore anche ad Antonella Sannella, direttrice esecutiva H Farm college, dove si pratica un insegnamento digitale e tecnologico innovativo, per esempio mischiando le generazioni e utilizzando format particolari, come i breakfast o lunch connect: «Aziende e persone possono mettersi di fronte ai ragazzi per ispirarli e farsi ispirare. I giovani sono alla ricerca di role model».

Libere e uguali: gli stereotipi nelle aziende
E nelle aziende? Laura Fedeli, Head of Advisory Valore D, che racchiude nel suo network 390 aziende, testimonia come gli stereotipi impattino nelle aziende, in particolare sulla genitorialità: «Cerchiamo di lavorare nelle imprese proprio sulla genitorialità condivisa, un concetto ancora difficile da far proprio perché la divisione dei ruoli proviene da stereotipi che lavorano a monte, e che hanno poi guidato la scelta degli studi e del lavoro. Stereotipi che gravano anche su chi genitore non è, facendo cadere lo stigma su chi sceglie di non esserlo o non può esserlo».
Quanti stereotipi sui padri!
Molti padri poi lamentano la difficoltà a esercitare i loro ruolo, come racconta Francesca Panigutto, head of marketing & communications Fondazione Libellula. «Tanti padri ci dicono di soffrire quando vengono chiamati “mammi” e raccontano di avere difficoltà a voler fare i papà, anche nelle aziende. Un monito per tutte noi donne a non giudicare gli uomini: spesso infatti ci mettiamo su un piedistallo e non cerchiamo di capire il perché di certi comportamenti». A volte insomma siamo anche noi donne il problema, come testimonia Carolina de’ Castiglioni, attrice e regista, voce di una Gen Z al limite, visti i suoi 28 anni : «È vero che noi ragazze siamo più avanti, ma è giusto chiedersi cosa stiamo sbagliando: se molti maschi sono ancora come non li vogliamo, è anche perché forse ci sono delle storture nella comunicazione». Dobbiamo rilfettere su come comunichiamo (e lo faremo in particolare nel quarto tavolo) perché, come conclude la nostra direttrice Maria Elena Viola, «siamo alleati».
Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano – Fondazione Libellula
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