Come tutte le storie, anche quella della parità di genere nello sport si può raccontare in molti modi e sempre con un finale diverso, tipo quei film con i protagonisti che rivivono la stessa scena: le cose che succedono sono quelle, ma il percepito cambia e la morale pure. Per descrivere la lunga marcia delle ragazze verso la conquista degli stessi diritti dei maschi sul palcoscenico olimpico, per lo più si usano i numeri e si comincia dall’inizio, cioè dalle Olimpiadi di Parigi del 1900, le prime in cui fu concesso alle donne di partecipare: 22 su 997 atleti, il 2% mal contato.

Olimpiadi di Parigi 2024: donne e uomini in perfetto pareggio

Per colmare il 48% mancante, ci sono voluti 124 anni. Le Olimpiadi di quest’estate, le 23esime dell’era moderna, ancora una volta a Parigi, sono già celebrate come quelle dello storico pareggio: 5.250 maschi, 5.250 femmine, 50% tondo tondo, da regolamento. Il Cio (Comitato Olimpico Internazionale), che al potere dei numeri crede fermamente, da decenni insegue questo risultato con politiche mirate a cui va dato un merito: aver forzato il più reazionario dei mondi, lo sport, a riscrivere le regole e ridistribuire i diritti, i premi, le ore di diretta, il prime time. I numeri, però, sono sempre il modo più facile di raccontare una storia, e quasi mai l’unico. Le percentuali, la spartizione matematica dei pass olimpici sono solo un pezzo di verità: per leggere la trama completa serve soffermarsi su altro.

La storia dell’ambiziosa Babe Didrikson

L’ambizione, tanto per cominciare, desiderio a lungo precluso alle ragazze per bene. Mildred Ella Didrikson detta Babe, nata in Texas da genitori norvegesi nel 1911, era proprio questo: una ragazza per bene con un talento sportivo fuori dal comune. Capace di farle vincere un campionato nazionale di basket nel 1932 e pochi mesi dopo qualificarsi per le Olimpiadi di Los Angeles in 5 discipline dell’atletica. Poi, dato che le regole permettevano alle donne di competere al massimo in 3, lei scelse il giavellotto, gli 80 metri ostacoli e il salto in alto: vinse 2 ori e un argento con il rammarico di aver rinunciato ad altri 2 podi certi.

Babe Didrikson, in gara in 3 discipline a Los Angeles 1932. Foto: IPA

E siccome l’ambizione negata è una benzina potente, imparò a giocare a golf e divenne la prima e a lungo unica donna a competere con i maschi nella Professional golfers’ association, dimostrando che se voleva essere una star niente poteva impedirglielo. Nel 1938 sposò George Zaharias, wrestler, prendendone il cognome. Una storia non particolarmente felice, archiviata anche grazie all’amicizia con la golfista Betty Dott, relazione mai definita sentimentale nonostante sia valsa a Babe il titolo non ufficiale di prima campionessa olimpica omosessuale.

Fanny Blankers-Koen: una mamma può fare l’atleta

Per dimostrare che le ragazze possono arrivare dove vogliono però, oltre all’ambizione, servono le prove, specie in un mondo paternalistico che vede il corpo femminile come qualcosa di fragile. La relazione tra l’esercizio fisico e la salute delle donne, specie quella riproduttiva, è stata per molto tempo l’ostacolo principale alla carriere delle atlete. La maternità, poi, una pietra tombale. Finché alle Olimpiadi di Londra del 1948 Fanny Blankers-Koen, olandese, dimostra al mondo che si possono avere figli e medaglie: atleta e mamma di 2 bambini, arriva ai Giochi incinta al terzo mese e vince 4 ori in quattro specialità (100 metri, 200, 80 ostacoli, staffetta 4×100). A dispetto delle lettere in cui le consigliavano di stare a casa con i figli e del soprannome con cui passerà alla storia: the flying housewife, la casalinga volante.

Fanny Blankers-Koen, che vinse i suoi 4 ori nell’atletica a Londra 1948 incinta di 3 mesi

Grazie a Joan Benoit Samuelson, le donne escono dalle retrovie delle Olimpiadi

I muri però non si abbattono con una sola spallata. L’idea che alle donne certi sforzi andassero vietati, infatti, ha precluso per decenni l’accesso a discipline considerate prerogativa maschile. La maratona, per esempio. Che le donne già partecipassero nei diversi circuiti poco importava: alle Olimpiadi le lunghezze superiori ai 1.500 metri erano proibite. Poi arrivò Joan Benoit Samuelson, la ragazza destinata a rivoluzionare il mondo dell’atletica. A partire dal liceo, dove aveva cominciato ad allenarsi con i maschi.

Ci dicevano che le donne non erano fatte per correre e che, se lo avessimo fatto, non avremmo potuto avere figli e saremmo diventate vecchie troppo presto

Joan ha continuato a correre, ha partecipato in incognita alla maratona di Boston, ha fondato un comitato per chiedere al Cio di mettere fine a un veto ingiusto e inutile. Una battaglia vinta nel 1984 con la prima storica maratona femminile ai Giochi di Los Angeles. L’ingresso di Joan nello stadio, più veloce di tutte, ha segnato una svolta: le atlete finalmente erano uscite dai margini. E se l’uscita dalle retrovie è stata un percorso duro per tutte, lo è stato di più per le atlete dei Paesi islamici. Così, sempre agli stessi Giochi di Los Angeles, la vittoria dell’oro nei 400 metri ostacoli di Nawal El Moutawakel, unica atleta donna della squadra marocchina, è un messaggio al mondo e la conferma definitiva: niente ci può fermare.

Joan Benoit, la prima a vincere la maratona olimpica, a Los Angeles 1984. Foto: IPA

Nessuno stereotipo regge alla forza delle ragazze

Il Cio prende atto e cambia rotta: negli anni ’90 comincia la strada ufficiale dei regolamenti sulle rappresentanze di genere. Per conquistare la parità, però, le quote rosa non bastano: a volte servono i pugni. L’ultima storica vittoria del movimento femminile nello sport è del 2012, con l’ingresso del pugilato femminile tra le discipline olimpiche ai Giochi di Londra e i primi 3 ori (l’inglese Nicola Adams, l’irlandese Katie Taylor e l’americana Claressa Shields). Ovvero, la dimostrazione che nessuno stereotipo regge alla forza delle ragazze. Da lì la marcia è diventata veloce nei numeri e nelle performance.

Nicola Adams, oro nella boxe a Londra 2012. Foto: IPA

I Giochi di Parigi, un momento da festeggiare

A Parigi la tappa più importante potrà dirsi compiuta: il palcoscenico olimpico, adesso, concede pari diritti. Tanto che, come ha dimostrato il forfait ai Giochi di Tokyo di Simone Biles, la ginnasta più forte di sempre, la rivendicazione più importante per le atlete non è più esserci e fare numero, ma potersi chiamare fuori: rinunciare, se il corpo e la mente dicono che il momento è sbagliato. La strada, giù dal palcoscenico, è ancora lunga. Anche se ogni conquista si fa un passo per volta, adesso è il momento di festeggiare. Magari godendosi la maratona femminile, che per la prima volta nella storia chiuderà i Giochi al posto di quella maschile. Anche i simboli contano.