Siamo arrivati alla fine. Non è un punto, ma una virgola che apre la porta al futuro. Nel lungo percorso del nostro progetto Libere e uguali. Per una nuova idea di parità, in cui abbiamo analizzato e provato a scardinare quei pregiudizi e quegli stereotipi che creano terreno fertile per una cultura della violenza, abbiamo finora approfondito tre temi importanti: le relazioni, il lavoro, la famiglia.

Donne, corpo e linguaggio: gli argomenti del 4° sondaggio

Nel quarto e ultimo sondaggio del nostro Osservatorio sui diritti, esploriamo il rapporto che noi donne abbiamo con il corpo. Un corpo che ci permette di abitare il presente, che ci fa occupare uno spazio fisico ma soprattutto sociale, ma che non riusciamo ancora ad amare e ad accettare per quello che è. E siccome per definirlo usiamo le parole, spesso sbagliate, il secondo tema affrontato – oltre al corpo – è proprio il linguaggio con cui noi donne veniamo descritte. Come dice la poetessa Emily Dickinson: «Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere». Le parole, quelle dette e non dette, dimenticate o da dimenticare, sono importantissime: plasmano il nostro pensiero, la rappresentazione che diamo di noi e del mondo. Anticipano cambiamenti e segnano nuovi inizi. Anche del nostro progetto, di cui vi racconteremo presto. Intanto qui analizziamo i risultati del sondaggio.

Il giudizio sul corpo

Quando si parla di corpo, tutto chiede bellezza. Ed è per quello che, come sottofondo costante, c’è il suono della preoccupazione che il nostro aspetto, la sua forma, il suo peso ci provocano, e della fatica che facciamo per tenere tutto a bada. Questo “rumore” emerge chiaramente anche dalle risposte al sondaggio: a causa di colori, forme, inestetismi lontani dai canoni estetici dominanti, sentirsi bene nel proprio fisico è difficile.

A dirlo è il 38% delle donne, soprattutto Millennials, e il 22% degli uomini

Tra noi e la nostra fisicità c’è un legame che genera emozioni contrastanti: la parola più citata dalle donne è insicurezza e, in particolare tra le ragazze più giovani, quel sentimento si trasforma in vergogna. Quando ci guardiamo allo specchio noi proviamo spesso emozioni negative, siamo le prime a ingabbiarci in spazi troppo angusti, mentre gli uomini associano la propria fisicità a pensieri positivi, usando parole come gratitudine e sicurezza.

Come viviamo il rapporto con il nostro corpo?

È un dato di fatto: anche in questo sono più liberi. «Perché è normale che un uomo a 50 anni abbia la pancia e possa essere affascinante e una donna alla stessa età se ingrassa è considerata brutta?» si chiede la scrittrice Antonella Lattanzi, autrice del romanzo Cose che non si raccontano (Einaudi). «Noi donne siamo sempre troppo: troppo grasse, troppo magre, troppo poco curate. Dobbiamo fare i conti con gli sguardi altrui, perché il corpo ci riguarda tutti. Intorno al nostro fisico sentiamo sempre quel chiacchiericcio di sottofondo». Quando, invece, ci servirebbe il silenzio in cui fioriscono parole, nuove consapevolezze, desideri.

Tra i tabù che ci ingabbiano c’è anche l’invecchiamento

È della stessa idea Francesca Maur, consigliera nazionale di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza: «La scrittrice Susan Sontag nel suo libro Sulle donne esprime qualcosa di profondamente vero sul doppio standard della società nei confronti dell’invecchiamento degli uomini e delle donne. Scrive: “L’invecchiamento è un’ordalia dell’immaginazione – un malessere morale, una patologia sociale – tale che la donna finisce per viversi con vergogna e disgusto”». Ed è per questo che, come evidenziano anche i dati, 7 donne su 10 hanno il desiderio di modificare il proprio corpo. Ma sono poche, per un certo verso per fortuna, quelle che poi danno realmente seguito a questa idea.

Sul rapporto con il nostro corpo pesano le aspettative degli altri

In quanto mezzo di espressione di noi stessi, il corpo non è solo un involucro: attraverso di esso comunichiamo la nostra identità, le nostre emozioni e i nostri vissuti. E il giudizio che gli altri ne danno ha un peso notevole. Come emerge dal sondaggio, infatti, sono tante le voci che ci sussurrano come “dovrebbe essere” il nostro corpo (in primis magro, per circa 1 donna su 2). Se per le ragazze il giudizio che pesa di più è quello degli amici, per le più grandi, in particolare le Millennials (28%), è quello del partner. «Abbiamo imparato a vergognarci di determinate caratteristiche fisiche perché ci è stato insegnato così proprio dallo sguardo maschile. Che vuole un corpo desiderabile» osserva l’attrice Cinzia Spanò, socia fondatrice e presidente dell’associazione Amleta per il contrasto al divario di genere e alla violenza nel mondo dello spettacolo.

Corpo e linguaggio nella violenza psicologica contro le donne

«È un dato che mi fa riflettere. Si pensa sempre che la famiglia sia un posto sicuro, un posto libero da giudizi, pregiudizi e stereotipi: in realtà non è così. Lo vediamo anche nei numeri della violenza sulle donne: la maggior parte delle volte avviene per mano del partner» aggiunge Francesca Maur. E qui torna la centralità del corpo, che nei casi di violenza psicologica, oltre che di quella fisica, diventa il bersaglio preferito. «L’insulto dell’uomo maltrattante colpisce quasi sempre il corpo. Frasi come “Sei una puttana”, “Sei brutta”, “Fai schifo” hanno il potere di ferire le donne perché l’accettazione di noi stesse passa da lì» spiega Maur.

Ci sarebbe bisogno di una pluralità di volti

Forse riusciremmo a fare pace con il nostro fisico se anche quello che vediamo in tv o al cinema parlasse realmente di noi. «Faccio un esempio. Recentemente in tv hanno raccontato le storie dell’astrofisica Margherita Hack, della poetessa Alda Merini e di Fernanda Wittgens, la prima direttrice della Pinacoteca di Brera. Tutte donne eccezionali, ma dai canoni estetici non conformi» dice Cinzia Spanò. «Un’iniziativa lodevole, peccato che per interpretarle abbiano scelto attrici bellissime, oltre che brave ovviamente, come Cristiana Capotondi, Laura Morante e Matilde Gioli. Il risultato? Il vero volto delle donne scompare e passa il messaggio che per essere protagonista devo essere affascinante, appetibile sessualmente. Dovremmo riuscire a raccontare altri volti».

Sulle donne pesano, oltre ai pregiudizi sul corpo, gli stereotipi del linguaggio

Abbiamo visto come il corpo diventi una prigione. Ma anche le parole possono trasformarsi in una gabbia. Lo sanno bene le vittime di violenza. «Il cuore del lavoro che facciamo nei nostri centri è un ascolto non giudicante e una narrazione che abbia un potere rigenerante e rigenerativo» spiega Maur. «Quando le donne si raccontano, usano spesso parole che contengono giudizi e pregiudizi su loro stesse. Insieme proviamo a cercare altri termini per descriversi».

Perché è fondamentale appropriarci delle parole giuste per liberare il nostro fisico, passando quindi dal corpo visto, osservato, giudicato, al corpo narrato.

La vittimizzazione secondaria

E la narrazione è fondamentale non solo nei centri anti-violenza, ma anche nei tribunali, nei commissariati di polizia, negli ospedali, nei consultori. «Le parole sbagliate, le domande giudicanti, l’eccessiva durata dei processi creano una forma nuova di violenza sulle donne che si chiama “vittimizzazione secondaria”. In sostanza, è quel fenomeno per il quale le vittime di un reato, e in particolare di una violenza sessuale, subiscono una seconda aggressione » spiega Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano. Le stesse autorità che dovrebbero combattere la violenza, insomma, non la riconoscono o la sottovalutano. Attuano comportamenti che fanno rivivere alla vittima le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta. Minano la sua credibilità sulla base di luoghi comuni. Screditano la sua vita privata. La colpevolizzano al punto da ritenerla parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto. La inducono, alla fine, ad autocolpevolizzarsi.

Le possibili soluzioni per contrastare la vittimizzazione secondaria

Ma evitare questa forma di violenza è possibile. «Il primo step è sradicare il problema culturale complessivo. Non dobbiamo essere permissivi e giustificativi, non c’è bisogno di condanne a intermittenza solo per i fatti più gravi: vanno condannati nella quotidianità tutti i comportamenti violenti contro le donne» osserva Roia. «Inoltre servirebbero percorsi di specializzazione per il personale e maggiori risorse, ovvero più pm e giudici, per accorciare i tempi di risposta della giustizia. L’ideale sarebbe effettuare l’incidente probatorio con la testimonianza della vittima entro 6 mesi dal fatto, in modo da non doverle più fare rivivere la violenza subita».

Perché la narrazione comune non ci rappresenta

Ma il tema della narrazione è importante per tutte le donne.

Circa 7 donne su 10 hanno dichiarato insofferenza quando sui media si sminuisce la loro professionalità nel confronto con i colleghi uomini

Sono generalmente associati al femminile temi come il gossip, l’empatia, la genitorialità, al maschile parole come forza, leadership, successo. Ed è proprio così. Le donne vengono percepite come esseri “relazionali”, che esistono cioè solo in relazione a qualcuno: di una donna, anche se arriva ai vertici, si dice che è moglie, madre, sorella anche quando questo non ha nessuna importanza nella storia che stiamo raccontando. «Penso sia ancora molto radicata l’idea che un figlio sia della mamma. E io odio questa frase, perché è come deputare alle donne il ruolo esclusivo di genitore, tanto che finiscono con il diventare una funzione perdendo l’identità di persone» fa notare Antonella Lattanzi. Che ragiona anche sulla parola “ambiziosa”, come lei stessa si definisce: «Se è riferita al maschile, nessun problema. Se è una donna a essere ambiziosa, invece, sembra che ci sia qualcosa di egoista».

Corpo e linguaggio, ma non solo: tutte le disparità di noi donne

Oltre a un difficile rapporto con il nostro corpo e a un linguaggio che ci rappresenta ancora poco, il nostro sondaggio mostra la consapevolezza delle disparità che gravano sulle donne nel mondo del lavoro. Non è un caso che la garanzia di un giusto equilibrio tra vita e lavoro sia ritenuto l’obiettivo di gran lunga prioritario. Questa chiara indicazione ci fa capire come sia ancora difficile per le donne strappare alla giornata lavorativa i tempi necessari per la cura della famiglia e, viceversa, conquistare nello spazio dedicato alle attività domestiche momenti in cui potersi buttare a capofitto nel lavoro. L’altra faccia della medaglia è altrettanto interessante.

La conciliazione lavoro-vita privata è una chimera

«Perché le donne devono necessariamente conciliare i tempi, anziché seguire liberamente le loro inclinazioni, foss’anche per realizzarsi prevalentemente in ambito professionale? Quali sono i costi sociali che un uomo deve sopportare se decide di investire le sue energie nella cura di figli, genitori anziani, casa all’interno di un nucleo familiare in cui a fare carriera è la donna?» dice Irene Pellizzone, professoressa associata in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano. «Si tratta probabilmente di un retaggio culturale, che parte dall’idea che la donna abbia maggiori attitudini dell’uomo, forse per motivi biologici, nelle attività di cura».

I congedi di paternità potrebbero essere un grande passo avanti

Del resto, la nostra, pur lungimirante, Costituzione all’articolo 37 recita che “le condizioni di lavoro devono consentire [alla donna] l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. «Erano tempi diversi e si è trattato di un passaggio essenziale, perché senza tutela della maternità le donne non avrebbero nemmeno iniziato a lavorare. Ma oggi dobbiamo puntare l’attenzione sul portato di questa visione, che comporta ancora un enorme divario tra tutela della maternità e della paternità, oggi ridotta a 10 giorni dopo la nascita del figlio. E se la rivoluzione passasse proprio dalla garanzia di congedi di paternità uguali a quelli di maternità?».