«Il fatto non sussiste». Per questo è stato assolto l’amministratore unico della società per cui lavorava Paola Clemente, la bracciante di 49 anni morta di fatica il 13 luglio 2015 ad Andria. L’accusa era di omicidio colposo per non aver impedito la morte di Paola, stroncata dal caporalato.

La giornata di Paola e delle donne sfruttate dal caporalato

Eppure, secondo il racconto delle colleghe fatto al marito, Paola aveva chiesto di essere portata in ospedale, ma le era stato detto che bisognava arrivare ad Andria. Andria dista dal luogo in cui abitava Paola 2 ore e mezza. Secondo la ricostruzione fatta dall’Ansa della giornata tipo non solo di questa bracciante, ma di tantissime altre donne, italiane come lei, Paola partiva alle 3, arrivava nella campagna tra Andria e Canosa di Puglia alle 5,30 e fino alle 12.30 era impegnata nell’acinellatura dell’uva, l’operazione manuale di pulizia dei grappoli. Un’attività in cui si preferiscono le mani agili e snelle delle donne. Terminato il lavoro, le donne venivano imbarcate nel viaggio di ritorno, altri 150 chilometri, con veri e propri pullman turistici. Ma in quei pullman non c’erano – non ci sono – comitive in vacanza ma donne, e uomini, sfiniti dalla fatica e costretti a lavorare per una paga da fame.

Paola, tre figli, è morta per 27 euro al giorno, di cui 12 destinati al caporale. Secondo quanto raccontato dalle altre donne impegnate nella stessa attività, una volta lì tra le campagne assolate, era stata invitata a sedersi sotto un albero in attesa che i fastidi passassero. Lei, però, è morta proprio sotto l’albero, dopo aver chiesto – l’ultimo suo gesto – un pettine per togliere la polvere dai capelli. Neppure l’arrivo del 118 era servito a salvarle la vita.

Un corto dedicato a Paola

La storia di Paola ha ispirato il regista Pippo Mezzapesa, in un corto toccante, crudo e di forte denuncia: La giornata.

Le donne sono il 40 per cento dei lavoratori stagionali

Paola è solo una delle tante, tantissime donne che lavorano in agricoltura, molte delle quali sfruttate dal sistema del caporalato. Le donne rappresentano il 32 per cento della manodopera agricola italiana: 330mila su 1 milione 100 mila lavoratori. L’Osservatorio Placido Rizzotto da anni monitora il lavoro agricolo per denunciare gli abusi, le violenze e le inadempienze di molti imprenditori. Jean Renè Bilongo, il presidente, ci racconta che «Le donne vengono sfruttate come gli uomini, ma nel loro caso sono vittime ancora di più perché spesso sottoposte a ricatti sessuali. I caporali adocchiano le donne con figli perché sanno che farebbero qualsiasi cosa per dare da mangiare ai loro bambini. E non parliamo solo di straniere, cioè rumene, bulgare o donne subsahariane: le italiane come Paola sono tantissime, almeno 40mila».

Il caporalato fa paura

Un numero inaccettabile di donne sfruttate dal caporalato, spesso camuffato da agenzie di viaggi o lavoro interinale. Donne trasportate con gli autobus su e giù per tutta la Regione, arrivando a coprire anche 300 km al giorno, per due euro all’ora.

Il marito di Paola raccontava ad Avvenire che «a fronte di 30 giornate effettive, ne risultavano soltanto 15, la metà. Molti però hanno paura. E se dicono qualcosa di diverso rischiano di non lavorare più. Mia moglie non si presentò un giorno perché stava male. La lasciarono a casa, per punizione, per due settimane. Dunque: o stai zitto e accetti quello che ti danno, oppure c’è un’altra persona in difficoltà pronta ad accettare quel lavoro per portare il pane a casa».

Il caporalato riguarda tutta l’Italia, non solo il Sud

Lo sfruttamento di donne e uomini in agricoltura non riguarda solo il Sud. La mappa più recente realizzata dall’osservatorio Placido Rizzotto fotografa una situazione a macchia di leopardo in tutta Italia, dove le campagne del Veneto e del Piemonte non sono da meno, circa la quantità delle aziende agricole coinvolte nel caporalato, rispetto a Emilia Romagna, certe zone della Lombardia, Toscana e Lazio, per registrare picchi in Puglia Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia. «Dalle nostre stime, sono circa 30mila le aziende che ricorrono ai caporali, cioè un quarto del totale delle aziende italiane con personale dipendente. L’orario medio va dalle 8 alle 12 ore al giorno, con le donne che percepiscono un salario inferiore del 20 per cento rispetto ai colleghi. Di questo, una parte va nel viaggio, da pagare ai caporali (da un minimo di cinque euro), come l’acqua e il panino. Nei casi più gravi, alcuni lavoratori percepivano un salario di un euro all’ora».

La morte di Paola e la prima legge sul caporalato

La morte di Paola, che è stata scioccante (ma di certo non la prima per colpa del caporalato), ha dato impulso a una legge di cui si discuteva da tempo, la 199 del 2016. «Questa legge – spiega il presidente dell’Osservatorio – tira fuori le unghie con i caporali, colpendo duramente chi si macchia di questo reato. Ma soprattutto spinge molto sulla prevenzione, cercando di sviluppare una rete del lavoro agricolo di qualità. Ogni impresa infatti deve iscriversi a un elenco, presente in ogni provincia, in cui dichiari di rispettare certi requisiti rispetto allo sfruttamento del lavoro. Su 108 province, le Sezioni Territoriali della Rete del Lavoro Agricolo di Qualità sono formalmente istituite in meno di 40 e le aziende iscritte sono meno di 7mila su un bacino di oltre 200mila. Nel frattempo, però, ogni giorno avvengono arresti e ispezioni, in una lotta che dura da 15 anni e che non abbandoneremo».

Prima della legge, solo una sanzione da 50 euro

Fino a pochi anni prima della legge, veniva colpito solo il caporale, e la pena era una sanzione amministrativa di 50 euro. Nessun ha pagato per la morte in Puglia nel 2006 di 118 braccianti polacchi, o nel 1980 per la morte di almeno tre ragazze – dai 16 ai 23 – in un terribile incidente vicino a Grottaglie. Oggi almeno la legge cerca di punire l’intero sistema, anche se tutto parte dalla denuncia, e denunciare non è facile. «Siao riusciti a convincere il marito di Paola a farlo, ma la paura delle ritorsioni e il clima di paura contro i caporali qui è molto forte» racconta Jean Renè Bilongo.

La lotta al caporalato ora ha un respiro europeo

Una buona notizia però c’è. La battaglia contro il caporalato ha assunto una rilevanza europea: «La voce più pesante del bilancio europeo è rappresentata dall’agricoltura: l’agricoltura vale centinaia di miliardi, il 35 per cento del bilancio europeo. Finalmente i soldi della PAC (Politica Comune Europea), che prima arrivavano per esempio anche ai campi da golf, ora sono vincolati al “condizionamento sociale”, cioè si ricevono solo se si dichiara di essere rispettosi del lavoro. Chi viola la normativa, perde dal 15 al cento per cento dei finanziamenti».