La Gazzetta Ufficiale, il 22 maggio 1978, recitava “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, ma per tutti era la legge 194, quella che depenalizzava l’aborto. E che rimane uno dei provvedimenti più osteggiati della nostra storia. Da allora, ci sono stati 35 ricorsi alla Corte Costituzionale, tutti respinti, e 40 anni dopo il dibattito è ancora aperto. Come succede anche in altri Paesi: il 25 maggio in Irlanda ci sarà il referendum per legalizzare l’aborto, in Polonia le donne sono scese in piazza perché il Parlamento vuole rendere più restrittiva una norma già rigida, che ora consente l’interruzione solo se la madre è in pericolo di vita, è stata stuprata o il feto ha una grave malformazione. In Iowa, negli Stati Uniti, è stata invece approvata una direttiva definita “medievale”: non si potrà più intervenire dopo la 6ª settimana. La nostra 194, a confronto, rimane un baluardo a difesa dei diritti delle donne, anche se le crepe non mancano.
La legge 194 ci ha fatto uscire dalla piaga della clandestinità
I giornali dell’epoca parlarono di rivoluzione. «È vero» conferma il professor Sandro Viglino, presidente nazionale dell’Associazione ginecologi territoriali. «La legge è stata il frutto di un grande compromesso tra i partiti, che capirono le esigenze della società e diedero il via libera a una delle norme migliori al mondo, perché tutela madre, medico e feto. La donna è stata resa protagonista: è lei a scegliere l’interruzione e lo specialista verifica solo la fattibilità medica. È previsto un colloquio con lo psicologo, poi si ha una settimana di tempo per decidere, e solo dopo il medico rilascia il certificato con il via libera all’intervento, che si può fare chirurgicamente entro 90 giorni dal concepimento o, dal 2009, anche farmacologicamente con la pillola RU486 entro 49 giorni. Il ginecologo è protetto grazie all’obiezione di coscienza, il diritto di dichiararsi contrario alla pratica per motivi etici». A distanza di 40 anni, possiamo dunque dire che la 194 è ancora una buona legge? «Sì, ha cancellato la piaga degli aborti clandestini e le previsioni dei detrattori, che profetizzavano un boom degli aborti, non si sono avverate» prosegue Viglino. «Non credo servano modifiche. Piuttosto, visto l’aumento degli obiettori, sta diventando difficile applicarla in tutta Italia. Rimangono dei paradossi: per esempio non si comprende come mai l’aborto chirurgico si faccia in day hospital e quello farmacologico con 3 giorni di ricovero: la RU486 è osteggiata dai medici stessi per disinformazione e pregiudizi, viene ritenuta meno sicura, contro ogni ragione scientifica».
In alcune Regioni è impossibile trovare dottori disponibili
Sono in aumento i ginecologi obiettori, l’80% del totale, con un +15% dal 2008 e tante Regioni da bollino rosso: in Basilicata l’88% dei medici è contrario, in Molise il 93. Il significato e la conseguenza di queste percentuali si capiscono ascoltando la storia di Veronica C., 27enne di Bari. «A maggio dell’anno scorso la mia vita è crollata in 2 settimane: ho perso il lavoro e il mio compagno mi ha lasciata, trasferendosi all’estero. Quando ho scoperto di essere incinta, ho sentito subito che non ce l’avrei fatta a prendermi cura di un figlio. Non ci ho dormito per giorni e sono andata dal ginecologo. Mi ha liquidata in un minuto dicendomi che era obiettore e mi ha spedita da un collega, che ha rimandato la visita 3 volte. Sono corsa in consultorio, ma per trovare posto in ospedale ho chiesto a 2 strutture e ho aspettato un mese. Sono stati i giorni peggiori della mia vita: alla fine ho abortito l’ultima settimana disponibile e ho vissuto tutto come un automa. Non ricordo quasi nulla ma con quel calvario, oltre al bimbo, quel giorno se n’è andato un pezzo di me». Situazioni come quelle denunciate da Veronica sono molto frequenti. Lo conferma Michele Mariano, ginecologo del Cardarelli di Campobasso, unico non obiettore del Molise: «Eseguo 400 aborti all’anno, arrivano donne anche da Puglia e Campania. Mi occupo di ogni aspetto dell’Ivg, l’Interruzione volontaria di gravidanza, dalla visita al colloquio piscologico, anche se non ho competenze. Se ho problemi sono io a risponderne, se ho dubbi nessuno mi aiuta: è logorante. E cosa succederà quando andrò in pensione? Il problema va risolto a livello nazionale: bisognerebbe obbligare le strutture a riservare più posti ai medici non obiettori quando fanno concorsi e assunzioni».
I consultori non hanno finanziamenti per i colloqui previsti
Rosa ha 65 anni ed è stata una delle prime a vivere l’esperienza dell’aborto legale, a Bologna. La sua storia, anche se lontana nel tempo, è ancora molto simile a quella di tante donne di oggi. «Era il 1979 e un rapporto occasionale mi ha catapultato nel mondo della maternità. Non ero pronta e non avrei cambiato idea, però non ho mai parlato con uno psicologo. Quando sono iniziate le nausee, mi sono sentita un’assassina. E ho continuato a sentirmici il giorno dell’intervento, ricoverata insieme a donne con parti difficili che lottavano per il proprio figlio mentre io me ne liberavo. Sono poi diventata una psicologa ma non una madre. Col tempo, ho capito che l’aborto è un lutto, una ferita che nessuno mi aveva aiutata a rimarginare e che sanguina ancora». La mancanza di assistenza emotiva è ancora uno dei grandi nodi irrisolti della 194, che invece la prevede per legge. «Faccio la ginecologa al San Giovanni di Roma e in un consultorio» spiega Cristina Damiani. «In ospedale c’è uno psicologo per tutta la struttura, al consultorio l’ultimo è andato in pensione. Non c’è assistenza né prima né durante né dopo l’Ivg. Il colloquio spetterebbe ai consultori, ma non hanno più fondi. Nel 2018 non può succedere che una ragazza arrivi per abortire, si senta chiedere se non è capace di usare la pillola e sia trattata con indifferenza».
Il numero delle interruzioni di gravidanza sta diminuendo
Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, nel 2016 le Ivg sono state 84.926, il 12% in meno rispetto al 2014. Nel 1982 erano 3 volte tanto. L’identikit di chi fa questa scelta? Ha tra i 25 e i 34 anni, vive soprattutto al Nord, possiede un diploma ma non sempre un lavoro, non è sposata. «La diminuzione è legata a 2 fattori» precisa Sandro Viglino. «Il primo è una maggiore consapevolezza sul fronte della contraccezione: anche se l’Italia rimane fanalino di coda della Unione europea sull’uso degli anticoncenzionali, il quadro è migliorato negli ultimi anni. Il secondo riguarda 2 novità: nel 2015 è arrivata da noi la pillola dei 5 giorni dopo (il farmaco che blocca il concepimento interrompendo l’ovulazione, ndr), che le maggiorenni acquistano senza ricetta. E nel 2016 l’Agenzia del farmaco ha annullato l’obbligo di ricetta, sempre per le over 18, anche per la pillola del giorno dopo, che va presa invece entro 72 ore dal rapporto a rischio».
Il 25 maggio l’Irlanda vota per abolire il divieto
“Take the boat” si diceva un tempo, quasi un linguaggio in codice per quello che non si poteva dire: le donne irlandesi per abortire dovevano andare a Londra, e dunque prendere la barca, attraversando il mare. Oggi la barca non si prende più, si usa l’aereo, ma il dolore è lo stesso: un viaggio di 48 ore, ospedale, intervento e ritorno. Vale per 3.600 donne ogni anno. Il prossimo 25 maggio tutto questo potrebbe finire: l’Irlanda è chiamata a votare un referendum sull’abolizione del divieto d’aborto – che nel Paese è un reato penale dal 1983 – attraverso la cancellazione dell’8° emendamento dell’articolo 40 della Costituzione che equipara i diritti della madre a quelli dell’unborn, il bambino che sta crescendo nel suo grembo. Se la vittoria sarà per il “sì”, come dicono i sondaggi, permetterà l’interruzione di gravidanza entro la 12ª settimana, salvo per i casi di rischio di vita per la madre e il bambino. La campagna referendaria è anche l’occasione per far uscire dall’anonimato le tante irlandesi che hanno dovuto ricorrere a questa scelta: giovani abusate, madri single, donne con problemi economici in famiglia. Accanto a loro molto spesso ci sono anche gli uomini: un ruolo molto forte nella campagna lo hanno i giovani studenti delle associazioni universitarie. Susan Blainey viene da Cork e ci racconta il suo dramma insieme al marito Tim: «Sono rimasta incinta di ritorno dalla luna di miele. Inizialmente mi dissero che tutto era a posto, che il bimbo era sano. Poi abbiamo avuto la diagnosi di una anomalia nel feto. Sono entrata in crisi». Il viaggio per l’Inghilterra rappresenta per molte donne un lusso economico che non possono permettersi: «Quando ho deciso di abortire sono andata dai miei parenti a Londra e ho scelto un ospedale pubblico, ma la mia casa è l’Irlanda. È qui che dobbiamo essere aiutate».
(Francesca Lozito, giornalista, vive in Irlanda. È curatrice del blog di zuppairlandese.blog)