Le cellule staminali della placenta pososno curare tante malattie degenerative, come l’artrite reumatoide, la fibrosi polmonare, l’ischemia cerebrale, il morbo di Crohn. «Sono efficaci anche per rimarginare ferite difficili, come il piede diabetico. Per ora noi le studiamo solo sugli animali, mentre negli Usa, in Australia e in Israele si sperimenta già sui pazienti: attendiamo con trepidazione i risultati». A parlare è Ornella Parolini, biologa bresciana di 53 anni che, dopo un lungo periodo all’estero fra Stati Uniti e Austria, nel 2002 è rientrata nella sua città per aprire il centro “Eugenia Menni” della Fondazione Poliambulanza: il primo, in Italia, a studiare le cellule staminali della placenta e il loro uso in medicina.
Reduce dal premio Standout Woman, che le è stato consegnato alla Camera dei Deputati per le doti professionali e umane, Ornella è subito tornata alle sue cellule che, dice orgogliosa, «promettono bene per la cura di tante malattie degenerative, la cui diagnosi, spesso tardiva, rischia di compromettere la guarigione (come spesso accade per l’artrite reumatoide). La placenta è fondamentale durante la gravidanza, ma poi viene gettata: per me, invece, è come uno zainetto che il neonato porta con sé, con un contenuto molto prezioso».
Perché le cellule che lei studia sono tanto interessanti per la scienza?
Perché, come tutte le staminali, si trasformano in altre cellule. In più, secernono molecole che attenuano le infiammazioni e creano un ambiente idoneo alla rigenerazione dei tessuti.
Quanto ci vorrà per usarle come terapia?
4 o 5 anni per vedere gli esiti dei test in corso, ma nulla è ancora sicuro. Lo dico per onestà verso chi sta male: conosco il dolore della malattia, mia madre è morta di Sla, so che la speranza può diventare illusione non appena si legga di qualche nuova ricerca.
Rispetto ad altre staminali, cosa hanno in più quelle della placenta?
Sono recuperabili facilmente, senza prelievi dolorosi. Aiutano la rigenerazione dei tessuti. E sono libere dai dilemmi etici delle cellule embrionali, che si ottengono distruggendo l’embrione.
In Italia è vietata la ricerca sulle staminali embrionali. Pensa sia un freno per la scienza?
No: è vero che la staminale dell’embrione è imbattibile per capacità di differenziarsi in diverse tipologie di cellule e per l’elevata capacità di proliferazione che tuttavia, se incontrollata, può portare alla formazione di tumori. Io credo più nelle cellule della placenta: promettono benissimo. Noi scienziati dobbiamo farci domande etiche: chiederci se tutto ciò che è tecnicamente possibile sia davvero da fare. Io, da biologa, vedo l’embrione come il primo stadio dello sviluppo dell’essere umano: non lo si può distruggere.
Qual è stata la sua scoperta più emozionante?
Dimostrare che le staminali della placenta, se trapiantate, non provocano rigetto, al contrario di altre. La placenta, in gravidanza, ha già permesso al feto di crescere senza problemi immunitari: questo rende le sue cellule molto “bene educate” a non farsi rifiutare dall’organismo.
E il momento più felice della sua carriera?
Ogni volta che posso trasmettere ad altri la mia esperienza e il mio entusiasmo. È stato meraviglioso diventare professore ordinario di Biologia all’università Cattolica di Roma. E ho gioito molto quando mi hanno chiesto di creare questo centro di ricerca a Brescia, convincendomi a rimpatriare dopo 10 anni oltre confine.
Se non fosse diventata biologa, cosa avrebbe fatto nella vita?
Sognavo di essere un medico, ma poiché vengo da una famiglia umile ho scelto biologia pensando di fare l’insegnante. Quando, per la tesi, ho lavorato con i pazienti dell’Istituto dei tumori di Milano, mi sono detta: se non posso essere un medico, studierò comunque altre vie per curare le persone.
L’ULTIMA SCOPERTA “MADE IN JAPAN” Arriva dall’università di Shinshu, in Giappone, l’ultima novità scientifica su queste cellule portentose. Il cuore di un macaco, danneggiato da un infarto, si è rigenerato grazie alle cellule della pelle che, immerse in un cocktail di geni, si sono poi sviluppate in cellule cardiache. Lo studio sperimentale è appena stato pubblicato sulla rivista Nature. Ma, avvertono gli autori, è ancora presto per testare la terapia sull’uomo.