Il maltempo che ha flagellato l’Italia ha causato morti e danni ingentissimi. Il Veneto è finito sommerso dalle piogge, con interi abitati senza acqua né corrente elettrica; la Liguria è stata devastata dalle mareggiate, con danni enormi ai porti turistici e strade distrutte. In Val di Fiemme e in Val Saisera migliaia di abeti hanno avuto la peggio contro le raffiche violente, mentre a Venezia l’acqua alta ha coperto l’8 per cento della città, allagando anche il corpo principale della Basilica di San Marco. In Sicilia nove persone hanno perso la vita in una villetta (abusiva e mai abbattuta) per l’esondazione del fiume Milicia, nel palermitano.
La stima complessiva dei danni, secondo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, sarebbe di 3 miliardi di euro (35 milioni solo in Lombardia, 300 in Trentino, forse un miliardo nel solo Veneto). Colpa, certamente, di un evento meteorologico di portata epocale. Però c’è anche altro a spiegare come mai in Italia ogni anno il conto dei danni da maltempo arriva a 7 miliardi di euro.
Un uragano ha colpito l’Italia
Quello che si è scatenato sul nostro Paese gli ultimi giorni di ottobre è stato un uragano di classe 2. Spiega il meteorologo Paolo Corazzon: «Un evento eccezionale, soprattutto per il vento, con raffiche fino a 150 km/ora. Proprio il vento è stato responsabile delle mareggiate devastanti in Liguria, dell’abbattimento degli alberi nel triveneto e dei disagi in molte città. Quanto alle piogge, non abbiamo registrato valori record, ma certamente episodi di forte intensità in alcune zone, come la Sicilia e il Veneto». Di solito associamo il concetto di uragano ai Caraibi o alla Florida. «Pur con genesi diversa, se ne è formato uno sul bacino centrale del mediterraneo. Fa specie, se pensiamo che solo un mese fa, sulla Grecia, si era formato un uragano di classe 1. Due fenomeni così in un mese sono una rarità: nel Mediterraneo capita che si formino – magari una volta all’anno – i cosiddetti “tropical like cyclone”, piccoli uragani anche loro pericolosi ma circoscritti. Questo “bestione” era molto esteso, per questo i venti erano fortissimi dall’Alto Adige alla Puglia». Tuttavia, niente di imprevedibile, spiega Corazzon: «L’evento meteorologico in sé era stato previsto e anticipato, con le allerte dovute, da parte dei centri meteo e dalla Protezione Civile. Prevedere i guai che arrivano dal cielo non è un problema, è la terra che riceve le piogge e i venti a contare».
Le tre dimensioni del rischio
Se il cielo è scagionato in parte, vista l’eccezionalità del fenomeno, cerchiamo le altre responsabilità che portano al dissesto e ai disastri. Il professor Renzo Rosso è un esperto di rischio alluvionale del Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano. Ha scritto un libro, Bombe d’acqua (Marsilio) che racconta la storia di tutte le alluvioni in Italia dal 1870 ai giorni nostri. «Non si può individuare una singola responsabilità precisa, né tantomeno la soluzione definitiva. Guardare solo alle normative o solo ai soldi (come con la polemica dei fondi europei disponibili ma poco sfruttati, ndr) ci porta a non considerare il quadro complessivo. Qui non si tratta di “mettere in sicurezza”, perché non esiste la sicurezza assoluta, bensì del livello di rischio che un Paese può o meno accettare». E l’Italia, secondo Rosso, ha tre grandi fattori di rischio.
Perché l’Italia è così a rischio?
Pericolosità del territorio
Le caratteristiche del territorio lo rendono più o meno propenso a generare problemi. Semplicissimo: corsi d’acqua fa rima con potenziali piene, montagne con precise caratteristiche geologiche ci espone a possibili frane. È fresco di stampa il rapporto ISPRA 2018 (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) sul dissesto idrogeologico in Italia. Su una superficie nazionale di oltre 302mila km quadrati, il 16,6% è mappato nelle categorie a maggiore pericolosità per frane e alluvioni. Il 2,2% della popolazione è a rischio elevato per le frane, il 10,4% per le alluvioni. Certo, ci sono altre aree a rischio medio e altre a rischio basso. Ma siamo lontani dalla vulgata da bar “l’Italia è tutta un pericolo”. E la consapevolezza sulle zone da tenere d’occhio c’è eccome, stando al livello di dettaglio della mappa disegnata dall’ISPRA. «Non viviamo in un territorio facile, ma non siamo il Paese più alluvionabile al mondo», spiega Rosso.
Abusivismo edilizio
Parliamo della posizione degli insediamenti rispetto al rischio territoriale. Qui, tristemente, l’esempio più calzante viene proprio dalla recente tragedia del fiume Milicia, a Casteldaccia. Se quella villetta abusiva non fosse stata lì (e non poteva starci), in una posizione troppo esposta alle bizze del corso d’acqua, non saremmo qui a parlare di funerali. Secondo Legambiente in Italia ci sono 71 mila immobili interessati da ordinanze di demolizione. Per più dell’80% di queste restano sulla carta. Secondo l’Istat, nel 2015 l’abusivismo riguardava il 47,3% del patrimonio immobiliare al Sud, il 18,9% al Centro e il 6,7% al Nord. Siamo bravissimi a costruire dove non si può, peccato che quel “non si può” spesso cela delle insormontabili criticità nelle caratteristiche del suolo.
Mancanza di precauzioni
Eccoci al nodo vero. «In molte circostanze», spiega Rosso, «adottando delle precauzioni si possono limitare i danni. Perché tra due parcheggi sotterranei molto vicini, a Genova, uno si allaga spesso e l’altro mai? In uno dei due è stato posto un vincolo in costruzione: alzare con un dosso tutti gli accessi di circa 140 cm sopra il piano di campagna. L’acqua non entra, nessun allagamento. Altro esempio che riguarda i tanti decessi in automobile durante le alluvioni: non basterebbe forse una mezza giornata di blocco totale del traffico nell’area dove è prevista pioggia record per piangere meno morti? Un altro ancora, le soluzioni per far sfogare il Seveso che dovrebbero salvaguardare la periferia Nord di Milano: ferme o rimandate, oppure incomplete. Una vicenda lunga un trentennio. Sono tutte precauzioni, e in Italia o fatichiamo a progettarle per incultura o a gestirle, per incuria. Abbiamo da insegnare al mondo (lo abbiamo fatto sin dagli anni ’90) come operare bene con la Protezione civile. Ma sul controllo della vulnerabilità siamo insufficienti».