Consentendo la registrazione all’anagrafe dei figli di 2 donne o di 2 uomini, Chiara Appendino si è presa una bella responsabilità. Qualcuno però doveva pur farlo, e forse non è casuale che la prima in Italia sia stata proprio una donna.

La cosa più rilevante è che la prima cittadina di Torino non abbia aspettato neppure il pronunciamento di un tribunale per usare quel buon senso e quella giustizia che anche la politica nazionale aveva preferito trascurare durante l’approvazione della legge sulle unioni civili, dalla quale la stepchild adoption era stata vigliaccamente stralciata. In Italia numeri certi sui bambini nati dalla volontà di coppie omogenitoriali non ce ne sono, né potrebbe essere diversamente, non essendoci appunto un’anagrafe. Le stime delle associazioni Lgbt e delle Famiglie arcobaleno sono però nell’ordine delle migliaia e aumentano ogni giorno.

Se non si consente la loro registrazione come figli di due madri o di due padri, per la legge si tratta di bambini senza un genitore, definizione discriminatoria che non ha alcun senso, visto che i genitori li hanno. Il punto però è che sono dello stesso sesso e questo contraddice la convinzione diffusa che un bambino, per crescere bene, abbia bisogno di una famiglia eterosessuale. In fase di approvazione dei cosiddetti matrimoni gay il governo non aveva voluto forzare la mano sui figli di queste coppie, sacrificando i diritti dei bambini per ottenere almeno quelli degli adulti. L’idea furbetta era che, grazie ai prevedibili ricorsi, la patata bollente passasse ai giudici e a forza di sentenze si finisse a dover integrare la norma. Appendino non ha voluto servirsi di questa furbata, assumendosi in pieno il coraggio di dire: «Queste sono famiglie uguali alle altre». Si spera che il suo partito, quel Movimento 5 Stelle che aveva votato contro la stepchild adoption, segua il suo esempio.