È successo a Instanbul, in Turchia: nelle tasche di giacche, pantaloni e gonne, alcuni clienti hanno trovato dei cartellini molto diversi da quelli tradizionali. Erano delle richieste di aiuto scritte a mano e, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa internazionale Associated Press, recitavano così: «Ho fatto io questo capo che stai per comprare ma non sono stato pagato per il mio lavoro». È la protesta dei lavoratori di Bravo Tekstil, terzista che ha chiuso i battenti all’improvviso nel luglio del 2016, lasciando a casa 155 dipendenti senza corrispondere loro mesi di stipendio arretrato. Prima di ricorrere al gesto estremo dei cartellini, 140 degli ex impiegati di Bravo (che produceva anche per Mango e Next fra gli altri) hanno anche lanciato una petizione su Change.org per chiedere che il debito nei loro confronti fosse saldato dalle grandi multinazionali per cui la loro azienda lavorava.
I marchi che appaltano la loro produzione, infatti, rimangono comunque responsabili della catena produttiva e non è affatto inusuale che i colossi del fast fashion aprano e chiudano le loro “factory” nel mondo con la stessa velocità con cui riempiono di nuovi capi i loro negozi ogni due settimane. «Abbiamo lavorato per Zara/Inditex, Mango e Next per molti anni. Abbiamo realizzato i prodotti di questi marchi con le nostre mani, garantendo loro grandi profitti. Ora chiediamo solo che ci venga dato quanto è giusto per il nostro lavoro e che vengano rispettati i nostri diritti base di lavoratori», si legge nella pagina della petizione, che oggi conta quasi ventunomila firme.
Un modello problematico
Le etichette-denuncia dei lavoratori turchi hanno riaperto il dibattito che da sempre accompagna il fast fashion, ovvero la tenuta etica ed ecologica di un modello di business che punta a produrre sempre di più in sempre meno tempo. Abbiamo affrontato l’argomento diverse volte anche qui su Donna Moderna, non ultimo sull’onda dell’arrivo di Primark in Italia, quando ci eravamo chiesti come fosse possibile che un capo d’abbigliamento costasse solo sette euro e come fare per rieducarci a un consumo più responsabile, che tenesse conto delle condizioni dei lavoratori e dell’impatto ambientale dell’industria tessile, una delle più inquinanti al mondo.
La trasparenza della filiera tessile, infatti, non riguarda solo i Paesi produttori dove il costo del lavoro è minimo e la tutela dei lavoratori quasi inesistente, anzi. Come ha dimostrato l’inchiesta su Internazionale di Marina Forti, che ha denunciato le condizioni di lavoro delle operaie di Stradella (in provincia di Pavia) che lavorano in un centro di smistamento dell’e-commerce italiano di H&M, è un problema che investe invece tutti i passaggi della catena, dalla manifattura alla distribuzione.
La risposta di Zara
Interpellata da Refinery29, Inditex (l’azienda che fa capo ad Amancio Ortega e che comprende Zara, Bershka, Pull and bear, Oysho e Massimo Dutti fra gli altri) ha così commentato la vicenda: «Inditex ha rispettato tutti i suoi obblighi contrattuali nei confronti di Bravo Tekstil ed è al momento al lavoro con i rappresentati locali di IndustriALL [un sindacato internazionale che rappresenta oltre 50 milioni di lavoratori nel mondo provenienti da 140 Paesi diversi, ndr], Mango e Next alla creazione di un fondo di emergenza per i lavoratori che sono stati colpiti dalla condotta fraudolenta della Bravo Tekstil». Il problema del fast fashion, però, è tutt’altro che risolto.